La presentazione della proposta di Def da parte del
Governo italiano offre l’occasione per compiere alcune riflessioni sullo strano
rapporto che si è creato in Europa tra la politica economica che un Governo
nazionale desidera attuare e la logica sistemica che si è consolidata a livello
di Unione Europea. Qui non interessa tanto discutere sui singoli aspetti di una
manovra di cui si conoscono ancora pochi elementi, se non il fatto che è
previsto un deragliamento dal sentiero di rientro del deficit pubblico con la
previsione di uno sforamento temporaneo al 2,4%, per effetto di alcune misure
di carattere sicuramente assistenziale
(reddito di cittadinanza) presentate come elemento di contrasto
all’impoverimento progressivo di parte della popolazione, altre di carattere
redistributivo e equitativo (riforma delle pensioni), e altre con finalità di
stimolo allo sviluppo (investimenti pubblici). “Equità e sviluppo” potrebbe essere
lo slogan che caratterizza questa manovra che, nella sostanza, appare
abbastanza keynesiana, nel senso che – coerentemente con l’impostazione di
Keynes – affiderebbe al maggior reddito dei cittadini una funzione di stimolo
ai consumi e agli investimenti una funzione di moltiplicatore positivo
sull’occupazione e sulle imprese. Keynes è un economista importante, le cui
teorie contribuirono a far uscire il mondo sviluppato dalla Grande Depressione
degli anni ’30 del Novecento e che negli anni ’70 di quel secolo conobbero in
Italia un grande revival, fornendo giustificazione teorica ai Governi di Centro
Sinistra di allora (in particolare alla componente socialista) nel favorire
l’espansione della spesa pubblica in ottica di riequilibrio sociale e di
sviluppo. Il problema – che gli economisti non hanno mancato di sottolineare –
che le politiche keynesiane richiedono risorse che un Paese fortemente
indebitato fa fatica a reperire.
Di fronte a una impostazione del genere la Commissione
Europea ha espresso un forte dissenso e certamente per l’Italia si apre un
periodo di forti turbolenze finanziarie che potrebbero avere forti
ripercussioni (negative) su privati, banche e assicurazioni. Per la Commissione Europea e per i mercati
finanziari conta soprattutto il livello di indebitamento pubblico e, per quanto
nominalmente il deficit rimanga sotto la fatidica soglia del 3%, fissata dai
trattati istitutivi della moneta unica, l’annunciato sforamento al 2,4%, in
controtendenza rispetto al trend degli ultimi anni, rappresenta un segnale
molto negativo. Ma qui non si vuole commentare una manovra dai contorni non
ancora chiari. Prendiamo da qui invece l’occasione per riflettere sul modo in cui si è costruita in
questi anni l’Unione Europea e sulla strana situazione di schizofrenia
decisionale che si è creata tra Stati nazionali e UE, schizofrenia che
sicuramente potrebbe sfociare in tensioni e contrasti molto superiori a quelli,
pur aspri nei toni, che oggi contraddistingue il “dialogo” tra Governo italiano
e UE. Per cercare di orientarci nel capire, è opportuna qualche considerazione.
Prima di tutto va detto che l’Unione Europea ha cambiato pelle negli anni: da un
progetto politico voluto da illuminati padri fondatori per superare le
conflittualità storiche tra Stati che avevano portato a due guerre mondiali
nell’arco di meno di cinquant’anni, un progetto politico che è avanzato fino
alla seconda metà del Novecento “governato” dalla politica, siamo passati in
modo sempre più evidente alla realizzazione di un progetto di integrazione
essenzialmente finanziaria che ha trovato nella costruzione dell’euro, cioè di
una moneta unica europea, la sua consacrazione. Costruendo l’euro e di
conseguenza costruendo un assetto di governo della moneta unica fondato
esclusivamente su parametri monetari e finanziari, su rapporti definiti a
tavolino tra i debiti pubblici dei vari Paesi aderenti, definendo soglie
invalicabili di debito pubblico, attribuendo potere di governo dell’euro e
delle istituzioni finanziarie degli Stati membri alla Banca Centrale Europea a
scapito delle Banche Centrali dei singoli Stati, si è edificato un sistema in sé coerente ma
rigido, dove vi è spazio solo per la politica monetaria. In una logica
monetaria non poteva essere, probabilmente, altrimenti, ma un processo di
integrazione monetaria e finanziaria non accompagnato da un parallelo processo
di integrazione politica attribuisce al mondo finanziario un potere pressochè
esclusivo di indirizzo e di controllo dei fenomeni macroeconomici. Oggi in
Europa l’unico modo di fare politica economica è fare “politica monetaria”,
quando invece la teoria economica insegna che la politica monetaria è e deve
essere parte di una più generale “politica economica” che utilizza leve e
variabili di vario genere. E’ questo il motivo di fondo per cui dal dibattito
economico europeo risultano desolatamente assenti i grandi obiettivi di
politica economica su cui da sempre si è misurata la teoria economica:
l’occupazione, l’impresa, la qualità dello sviluppo sono alcuni di questi.
Conta la stabilità monetaria, con tutto ciò che essa richiede. Discorso in sé
giusto, ma pericolosamente monco. Resta perciò il fatto, incontestabile, che
questa costruzione pensata a tavolino da un ristretto numero di “esperti”, in
genere esponenti della finanza e delle Banche Centrali, ha portato a una
divaricazione, oggi evidente , tra le esigenze della politica, che rimane
ancorata a visioni nazionali, e la finanza, che si muove su uno scenario
globale e che trova nelle istituzioni preposte al governo della moneta unica un
formidabile alleato nelle sue azioni. Il mancato processo di integrazione
politica a livello europeo – per la verità più facile a dirsi che a farsi, dato
che la storia dell’Europa è una storia di rapporti (e di scontri) tra Stati
nazionali – ha portato a una situazione in cui sembra inevitabile che possano
crearsi tensioni e frizioni, anche gravi. Infatti uno Stato nazionale che in
determinate contingenze volesse adottare azioni di politica economica che
alterassero, anche solo temporaneamente, il rigido quadro dei parametri di
riferimento fissati a livello europeo si troverebbe subito esposto a tensioni
finanziarie e a speculazioni di ogni genere. Di fatto il sistema europeo ha
azzoppato la politica, che rimane incardinata negli Stati nazionali, nel suo
sforzo di superare situazioni specifiche con i classici strumenti non monetari
di politica economica. La politica degli Stati nazionali è costretta a giocare
una partita a handicap, che non entusiasma nessuno e apre la strada a rancori e
malumori crescenti. E ciò che forse colpisce di più è il fatto che la grande
maggioranza degli esponenti politici a livello europeo dimostri continuamente di
non interrogarsi sul “che fare” per individuare e introdurre strumenti e regole
capaci di rendere compatibile la politica monetaria con le altre leve di
politica economica. Qui il discorso diventa inevitabilmente molto concreto, nel
senso che non si può non pensare al peso degli interessi dei singoli Stati per
modificare o meno determinate regole. In politica e in economia vince in genere
il più forte, ed è lecito pensare che gli Stati forti dell’Europa non abbiano
interesse a cambiare. Questo però non
sembra essere il modo migliore per costruire una vera integrazione tra Stati.
Allargando un po’ l’orizzonte delle nostre considerazioni,
va detto in secondo luogo che il quadro macroeconomico generale, non solo per
l’Italia ma per il mondo, si è modificato radicalmente nel corso di
quest’ultimo ventennio per effetto di una serie di decisioni e di azioni che
hanno contribuito, tutte, a rendere le relazioni economiche internazionali più
complesse e sovente meno comprensibili e gestibili: da una apertura dei mercati
a livello globale decisa forse con troppa precipitazione su spinta degli USA; all’abolizione
di preziose regole (ancora una volta, a partire dagli USA) che dividevano i
campi di azione della finanza speculativa dagli altri impieghi finanziari; alla
sofisticazione di strumenti che avranno certo reso ai loro ideatori qualche
premio Nobel per l’economia (si pensi ai famosi “derivati”) ma che hanno
contribuito a rendere la finanza meno trasparente e decifrabile. Si aggiunga
poi un processo di allargamento dell’Unione Europea, fortemente voluto a suo
tempo per ragioni essenzialmente geopolitiche, processo che avrebbe potuto
essere molto positivo se avesse rispettato, e rispettasse, le peculiarità anche
culturali delle comunità che i confini statuali esprimono. Invece la politica
delle istituzioni europee ha risposto a questo processo con una corsa – in sé
potenzialmente divisiva e pericolosa – verso una omologazione di regole e
costumi, applicando una discutibile logica di “volontà della maggioranza” a
livello europeo, sovente importando concetti estranei alla cultura europea.
Eppure dovrebbe essere evidente a tutti, e a maggior ragione a chi è investito
di responsabilità politiche a livello europeo, che l’Unione è un agglomerato di
comunità contraddistinte da diversità religiose (cattolici e protestanti),
economiche (mercati organizzati in modo differente e più o meno liberalizzati),
etiche, giuridiche (Paesi di Common law e Paesi di Civil Law), culturali. A
tale ultimo riguardo un segno evidente di questà volontà “impositiva” importata
da oltre oceano sembra essere la quasi forsennata esaltazione dei cosiddetti “diritti
civili” – frutto di una visione liberal della società che non tutti condividono
e a cui non sono estranei precisi interessi economici – che, a prescindere dal
come ciascuno la pensi, meriterebbero discussioni lunghe, meditate e
approfondite, ben lontane da quanto a volte ci tocca sentire, che non va al di
là dell’insulto e del discredito aprioristico di chi la pensa in modo diverso.
Aggiungiamo ancora a questo quadro che l’Italia è entrata
nell’euro senza essere del tutto consapevole di
cosa questo ingresso avrebbe di fatto comportato. L’ingresso nelle
regole dell’euro contrastava radicalmente con un principio a cui invece
praticamente tutti i Governi si sono attenuti, almeno dagli anni ’70 del
Novecento in poi: il principio del consenso alimentato dalla spesa pubblica.
Principio criticabilissimo, ma al quale non sono estranee oggi le
sollecitazioni ad una maggiore uguaglianza che provengono alle politiche
nazionali dalle istanze, i rancori e le aspettative delle tante vittime che il
processo della globalizzazione economica ha lasciato dietro di sé.
Se questo è il quadro di riferimento, ed è solo un
abbozzo, non c’è da stupirsi se i politici dei vari schieramenti “tradizionali”
risultino in qualche modo tutti screditati e se sorgono nuove aggregazioni politiche
che , sia pure in modo confuso, rozzo e spesso approssimativo, si fanno
portavoce dei malumori e delle delusioni della gente comune, contrapponendo la
“volontà del popolo” a quella di elites
che sono percepite lontane dai reali problemi. E non c’è da stupirsi –
lo dimostra il tono del confronto tra Italia e UE – se queste nuove
aggregazioni politiche, anziché scegliere la strada del confronto preventivo
con le istituzioni europee per “strappare” il massimo delle concessioni
possibile all’interno delle regole date, scelgono la strada della
contrapposizione con l’obbiettivo esplicito di modificare profondamente queste
regole, per recuperare un’autonomia di decisione che , sia pure in modo
disordinato, rappresenta il tentativo di ripristinare sui processi economici il
primato della politica e di farle correre una gara senza handicap per
recuperare slancio in ottica di sviluppo nell’interesse delle comunità
nazionali. Come il quadro si evolverà, è veramente arduo ipotizzarlo.
All’orizzonte, per il momento si vedono solo segnali di intensi uragani.