domenica 3 febbraio 2019

Quotidiane cronache di inciviltà da una società disgregata


Questa riflessione nasce da un fatto di cronaca, nemmeno particolarmente “eclatante” ma emblematico dello stato dei rapporti tra gruppi sociali e individui nella nostra società italiana. Il fatto è questo: qualche tempo fa -  almeno a quanto riferito dai social network  - la Presidente del Municipio di Roma, appartenente ad una determinata area politica, insieme ad alcune consigliere e cittadine, ha diretto un “blitz” contro la sede del Movimento Pro Vita a Roma, per coprire un manifesto regolarmente affisso in vetrina, raffigurante un bimbo di 11 settimane nel grembo materno, e imbrattando la sede con cartelli abusivi in favore dell’aborto.
Si dirà: niente di nuovo sotto il sole. Questo è uno dei tanti fatti di cronaca che denotano i livelli di conflittualità della dialettica politica e sociale nella nostra comunità italiana. Ai tempi del mitico ’68 e negli anni degli aspri conflitti sindacali degli anni ’70 si è visto certamente di  peggio. Ma questo fatto, che vede da un lato come parte danneggiata un Movimento in prima linea con numerose iniziative di comunicazione a favore della vita del nascituro e come parte “danneggiante” l’area abortista, è per noi uno dei tantissimi sintomi di una progressiva disgregazione del confronto sociale e l’indice di un degrado crescente nelle regole di convivenza, regole  alle quali dovrebbero ricondursi anche i momenti di contrapposizione ideologica, inevitabili in una democrazia e in una società plurale come quella italiana.
Per noi è in atto un preoccupante radicalismo che si mescola alla frammentazione sociale. Sono tanti i comportamenti che attestano una pericolosa caduta del senso civico e della capacità di coesistenza in una società complessa. In Italia ne abbiamo esempi pressochè quotidiani: dal dilagare dell’insulto via social network accompagnato alla scarsissima propensione al confronto delle idee; alle invettive politiche; alla demonizzazione di chi la pensa in modo diverso; all’assoluta mancanza di senso delle istituzioni di cui molti amministratori pubblici danno prova, incitando alla contravvenzione delle norme per una asserita “disobbedienza civile” di fronte a temi politicamente sensibili (pensiamo alle dichiarazioni e ai comportamenti di alcuni Sindaci sui temi dell’immigrazione clandestina); e si potrebbe continuare a lungo. In sostanza, sembra che si stia formando una società sempre meno improntata alla tolleranza, dove si smarrisce il senso dei ruoli istituzionali e dove il livello di rabbia e di livore è inversamente proporzionale al livello di comprensione meditata dei fenomeni e dei comportamenti degli altri. Ci si comprende sempre di meno, e anche sui principi di riferimento si è sempre meno d’accordo. Sembra che ciascuno pensi di detenere il monopolio della verità, e in questo clima si snatura il senso regolatore della legge, e si delegittimano continuamente le istituzioni e quanto di “collettivo” esse rappresentano.
A prescindere da ogni valutazione sul fatto riferito e sui comportamenti sopra ricordati, ci sembra che tutto ciò ci porti a ragionare, ancora una volta, su ciò che sta alla base della tolleranza e di conseguenza sugli elementi che possono “tenere insieme” società come le nostre. I sostenitori del primato della legge  riaffermano continuamente che il collante delle società complesse è in fondo proprio l’architettura di una democrazia “procedurale”, dove  la legge si forma, e va di conseguenza osservata, se obbedisce alle regole della democrazia rappresentativa. La convivenza civile e le forme e i modi della sua evoluzione trovano perciò nelle sole regole della democrazia parlamentare e, naturalmente con le tutele che questa stessa democrazia stabilisce per le minoranze, nel principio di maggioranza la loro spiegazione e giustificazione.  Il problema è – e i fatti sono lì a testimoniarlo – che questo principio si sta dimostrando sempre meno adeguato a costruire un quadro di riferimento condiviso dalla generalità di gruppi e cittadini. La legge da sola non tiene più insieme un corpo sociale, anzi in taluni casi viene apertamente rifiutata.  Ancora una volta, allora, non possiamo che tornare a riflettere sul fatto che le regole e le procedure devono trovare alla base un insieme di valori condivisi: valori che riguardano sia il modo di confrontarsi sulla scena politica e sociale, sia una accettata gerarchia di “principi primi” cui rapportarsi sul piano etico e nei rapporti interpersonali. Non dobbiamo del resto dimenticarci che, storicamente, la democrazia rappresentativa è stata elaborata in un contesto dove nessuno metteva in dubbio i valori di riferimento su cui si fondava la convivenza civile e dove nessuno pensava di adottare comportamenti che mettessero in dubbio il significato della legge e delle istituzioni. Per questi motivi così, ancora una volta, bisogna tornare a ragionare sul come fare per ricostruire una coscienza etica e una coscienza civile, che le attuali derive comportamentali, rafforzate dalla superficialità del confronto e del dibattito sui network, mettono sempre più in discussione. Non è solo un problema di istruzione o di cultura, che pure sono importantissime. Il tema non più eludibile è un confronto vero sull’importanza di alcuni “valori fondanti” per tenere insieme società complesse.
E’ troppo pretendere almeno dai rappresentanti delle istituzioni – lo è anche il municipio di Roma Capitale –comportamenti in grado di “educare” i cittadini al rispetto delle idee diverse dalle proprie e alla tolleranza? Non sappiamo se questi e altri interrogativi istituzionali si siano presentati alla mente della Presidente del Municipio di Roma , e non sapremo mai se il comportamento descritto sia soltanto frutto della sua ansia di movimentismo “pro aborto”, oppure se rappresenti la spia di fortissimi deficit culturali su cosa sia la democrazia rappresentativa.

lunedì 8 ottobre 2018

La corsa ad handicap della politica dei governi nazionali nell'Europa della finanza

La presentazione della proposta di Def da parte del Governo italiano offre l’occasione per compiere alcune riflessioni sullo strano rapporto che si è creato in Europa tra la politica economica che un Governo nazionale desidera attuare e la logica sistemica che si è consolidata a livello di Unione Europea. Qui non interessa tanto discutere sui singoli aspetti di una manovra di cui si conoscono ancora pochi elementi, se non il fatto che è previsto un deragliamento dal sentiero di rientro del deficit pubblico con la previsione di uno sforamento temporaneo al 2,4%, per effetto di alcune misure di carattere  sicuramente assistenziale (reddito di cittadinanza) presentate come elemento di contrasto all’impoverimento progressivo di parte della popolazione, altre di carattere redistributivo e equitativo (riforma delle pensioni), e altre con finalità di stimolo allo sviluppo (investimenti pubblici). “Equità e sviluppo” potrebbe essere lo slogan che caratterizza questa manovra che, nella sostanza, appare abbastanza keynesiana, nel senso che – coerentemente con l’impostazione di Keynes – affiderebbe al maggior reddito dei cittadini una funzione di stimolo ai consumi e agli investimenti una funzione di moltiplicatore positivo sull’occupazione e sulle imprese. Keynes è un economista importante, le cui teorie contribuirono a far uscire il mondo sviluppato dalla Grande Depressione degli anni ’30 del Novecento e che negli anni ’70 di quel secolo conobbero in Italia un grande revival, fornendo giustificazione teorica ai Governi di Centro Sinistra di allora (in particolare alla componente socialista) nel favorire l’espansione della spesa pubblica in ottica di riequilibrio sociale e di sviluppo. Il problema – che gli economisti non hanno mancato di sottolineare – che le politiche keynesiane richiedono risorse che un Paese fortemente indebitato fa fatica a reperire.
Di fronte a una impostazione del genere la Commissione Europea ha espresso un forte dissenso e certamente per l’Italia si apre un periodo di forti turbolenze finanziarie che potrebbero avere forti ripercussioni (negative) su privati, banche e assicurazioni.  Per la Commissione Europea e per i mercati finanziari conta soprattutto il livello di indebitamento pubblico e, per quanto nominalmente il deficit rimanga sotto la fatidica soglia del 3%, fissata dai trattati istitutivi della moneta unica, l’annunciato sforamento al 2,4%, in controtendenza rispetto al trend degli ultimi anni, rappresenta un segnale molto negativo. Ma qui non si vuole commentare una manovra dai contorni non ancora chiari. Prendiamo da qui invece l’occasione per  riflettere sul modo in cui si è costruita in questi anni l’Unione Europea e sulla strana situazione di schizofrenia decisionale che si è creata tra Stati nazionali e UE, schizofrenia che sicuramente potrebbe sfociare in tensioni e contrasti molto superiori a quelli, pur aspri nei toni, che oggi contraddistingue il “dialogo” tra Governo italiano e UE. Per cercare di orientarci nel capire, è opportuna qualche considerazione.
Prima di tutto va detto che l’Unione  Europea ha cambiato pelle negli anni: da un progetto politico voluto da illuminati padri fondatori per superare le conflittualità storiche tra Stati che avevano portato a due guerre mondiali nell’arco di meno di cinquant’anni, un progetto politico che è avanzato fino alla seconda metà del Novecento “governato” dalla politica, siamo passati in modo sempre più evidente alla realizzazione di un progetto di integrazione essenzialmente finanziaria che ha trovato nella costruzione dell’euro, cioè di una moneta unica europea, la sua consacrazione. Costruendo l’euro e di conseguenza costruendo un assetto di governo della moneta unica fondato esclusivamente su parametri monetari e finanziari, su rapporti definiti a tavolino tra i debiti pubblici dei vari Paesi aderenti, definendo soglie invalicabili di debito pubblico, attribuendo potere di governo dell’euro e delle istituzioni finanziarie degli Stati membri alla Banca Centrale Europea a scapito delle Banche Centrali dei singoli Stati,  si è edificato un sistema in sé coerente ma rigido, dove vi è spazio solo per la politica monetaria. In una logica monetaria non poteva essere, probabilmente, altrimenti, ma un processo di integrazione monetaria e finanziaria non accompagnato da un parallelo processo di integrazione politica attribuisce al mondo finanziario un potere pressochè esclusivo di indirizzo e di controllo dei fenomeni macroeconomici. Oggi in Europa l’unico modo di fare politica economica è fare “politica monetaria”, quando invece la teoria economica insegna che la politica monetaria è e deve essere parte di una più generale “politica economica” che utilizza leve e variabili di vario genere. E’ questo il motivo di fondo per cui dal dibattito economico europeo risultano desolatamente assenti i grandi obiettivi di politica economica su cui da sempre si è misurata la teoria economica: l’occupazione, l’impresa, la qualità dello sviluppo sono alcuni di questi. Conta la stabilità monetaria, con tutto ciò che essa richiede. Discorso in sé giusto, ma pericolosamente monco. Resta perciò il fatto, incontestabile, che questa costruzione pensata a tavolino da un ristretto numero di “esperti”, in genere esponenti della finanza e delle Banche Centrali, ha portato a una divaricazione, oggi evidente , tra le esigenze della politica, che rimane ancorata a visioni nazionali, e la finanza, che si muove su uno scenario globale e che trova nelle istituzioni preposte al governo della moneta unica un formidabile alleato nelle sue azioni. Il mancato processo di integrazione politica a livello europeo – per la verità più facile a dirsi che a farsi, dato che la storia dell’Europa è una storia di rapporti (e di scontri) tra Stati nazionali – ha portato a una situazione in cui sembra inevitabile che possano crearsi tensioni e frizioni, anche gravi. Infatti uno Stato nazionale che in determinate contingenze volesse adottare azioni di politica economica che alterassero, anche solo temporaneamente, il rigido quadro dei parametri di riferimento fissati a livello europeo si troverebbe subito esposto a tensioni finanziarie e a speculazioni di ogni genere. Di fatto il sistema europeo ha azzoppato la politica, che rimane incardinata negli Stati nazionali, nel suo sforzo di superare situazioni specifiche con i classici strumenti non monetari di politica economica. La politica degli Stati nazionali è costretta a giocare una partita a handicap, che non entusiasma nessuno e apre la strada a rancori e malumori crescenti. E ciò che forse colpisce di più è il fatto che la grande maggioranza degli esponenti politici a livello europeo dimostri continuamente di non interrogarsi sul “che fare” per individuare e introdurre strumenti e regole capaci di rendere compatibile la politica monetaria con le altre leve di politica economica. Qui il discorso diventa inevitabilmente molto concreto, nel senso che non si può non pensare al peso degli interessi dei singoli Stati per modificare o meno determinate regole. In politica e in economia vince in genere il più forte, ed è lecito pensare che gli Stati forti dell’Europa non abbiano interesse a cambiare.  Questo però non sembra essere il modo migliore per costruire una vera integrazione tra Stati.
Allargando un po’ l’orizzonte delle nostre considerazioni, va detto in secondo luogo che il quadro macroeconomico generale, non solo per l’Italia ma per il mondo, si è modificato radicalmente nel corso di quest’ultimo ventennio per effetto di una serie di decisioni e di azioni che hanno contribuito, tutte, a rendere le relazioni economiche internazionali più complesse e sovente meno comprensibili e gestibili: da una apertura dei mercati a livello globale decisa forse con troppa precipitazione su spinta degli USA; all’abolizione di preziose regole (ancora una volta, a partire dagli USA) che dividevano i campi di azione della finanza speculativa dagli altri impieghi finanziari; alla sofisticazione di strumenti che avranno certo reso ai loro ideatori qualche premio Nobel per l’economia (si pensi ai famosi “derivati”) ma che hanno contribuito a rendere la finanza meno trasparente e decifrabile. Si aggiunga poi un processo di allargamento dell’Unione Europea, fortemente voluto a suo tempo per ragioni essenzialmente geopolitiche, processo che avrebbe potuto essere molto positivo se avesse rispettato, e rispettasse, le peculiarità anche culturali delle comunità che i confini statuali esprimono. Invece la politica delle istituzioni europee ha risposto a questo processo con una corsa – in sé potenzialmente divisiva e pericolosa – verso una omologazione di regole e costumi, applicando una discutibile logica di “volontà della maggioranza” a livello europeo, sovente importando concetti estranei alla cultura europea. Eppure dovrebbe essere evidente a tutti, e a maggior ragione a chi è investito di responsabilità politiche a livello europeo, che l’Unione è un agglomerato di comunità contraddistinte da diversità religiose (cattolici e protestanti), economiche (mercati organizzati in modo differente e più o meno liberalizzati), etiche, giuridiche (Paesi di Common law e Paesi di Civil Law), culturali. A tale ultimo riguardo un segno evidente di questà volontà “impositiva” importata da oltre oceano sembra essere la quasi forsennata esaltazione dei cosiddetti “diritti civili” – frutto di una visione liberal della società che non tutti condividono e a cui non sono estranei precisi interessi economici – che, a prescindere dal come ciascuno la pensi, meriterebbero discussioni lunghe, meditate e approfondite, ben lontane da quanto a volte ci tocca sentire, che non va al di là dell’insulto e del discredito aprioristico di chi la pensa in modo diverso.
Aggiungiamo ancora a questo quadro che l’Italia è entrata nell’euro senza essere del tutto consapevole di  cosa questo ingresso avrebbe di fatto comportato. L’ingresso nelle regole dell’euro contrastava radicalmente con un principio a cui invece praticamente tutti i Governi si sono attenuti, almeno dagli anni ’70 del Novecento in poi: il principio del consenso alimentato dalla spesa pubblica. Principio criticabilissimo, ma al quale non sono estranee oggi le sollecitazioni ad una maggiore uguaglianza che provengono alle politiche nazionali dalle istanze, i rancori e le aspettative delle tante vittime che il processo della globalizzazione economica ha lasciato dietro di sé.
Se questo è il quadro di riferimento, ed è solo un abbozzo, non c’è da stupirsi se i politici dei vari schieramenti “tradizionali” risultino in qualche modo tutti screditati e se sorgono nuove aggregazioni politiche che , sia pure in modo confuso, rozzo e spesso approssimativo, si fanno portavoce dei malumori e delle delusioni della gente comune, contrapponendo la “volontà del popolo” a quella di elites  che sono percepite lontane dai reali problemi. E non c’è da stupirsi – lo dimostra il tono del confronto tra Italia e UE – se queste nuove aggregazioni politiche, anziché scegliere la strada del confronto preventivo con le istituzioni europee per “strappare” il massimo delle concessioni possibile all’interno delle regole date, scelgono la strada della contrapposizione con l’obbiettivo esplicito di modificare profondamente queste regole, per recuperare un’autonomia di decisione che , sia pure in modo disordinato, rappresenta il tentativo di ripristinare sui processi economici il primato della politica e di farle correre una gara senza handicap per recuperare slancio in ottica di sviluppo nell’interesse delle comunità nazionali. Come il quadro si evolverà, è veramente arduo ipotizzarlo. All’orizzonte, per il momento si vedono solo segnali di intensi uragani.

lunedì 17 settembre 2018

Pluralismo di valori e pluralismo di morali. Quali "legature" per la tenuta della società?


Nel corso dell’interminabile opera di riordino dei tanti volumi della nostra biblioteca, è riaffiorata la raccolta, edita dal Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino, dei testi delle conferenze organizzate in omaggio a Fulvio Guerrini, promotore del Centro stesso, che è uno dei più interessanti e rilevanti “pensatoi” di analisi, prospettive e valori autenticamente liberali in Italia.
Il volume contiene i testi delle Conferenze effettuate nel periodo 1994-2005. Fa riflettere, per i ragionamenti svolti e la prospettiva di analisi, la lettura della conferenza del 2000 tenuta da Tristram Engelhardt Jr. sul tema “Al di là della giustizia e dell’equità: ripensare i sistemi sanitari”.  La tesi di Engelhardt  è  - citiamo testualmente - che “la diffusa idea di una impostazione nazionale, moralmente uniforme, della politica sanitaria non possa essere giustificata, in considerazione 1) dei limiti della nostra razionalità morale discorsiva 2) dalla pluralità delle nostre morali laiche, e 3) dalle conseguenti difficoltà ad accettare il fatto che un’autorità mondana possa imporre un’unica moralità valida per tutti. Nel momento in cui entriamo nel nuovo millennio siamo divisi dalle nostre opinioni sulla giustizia, sull’equità e sull’uguaglianza, esattamente come siamo divisi dalle nostre convinzioni religiose. Esistono tante correnti di pensiero sulla giustizia, l’equità e l’uguaglianza quante sono le maggiori religioni”. La conseguenza di questa constatazione è, per Engelhardt, che “data la nostra incapacità di scegliere – su basi di principio e con argomenti razionali evidenti – tra le diverse idee di giustizia, equità ed uguaglianza, è necessario rinunciare all’ipotesi di imporre una comune visione di un’assistenza sanitaria giusta, equa o correttamente uniforme”. Perciò, in una società laica e pluralista, caratterizzata dall’autorità morale limitata di una democrazia limitata, “ siamo costretti  ad accettare tacitamente l’esistenza di atteggiamenti pacifici e moralmente diversi in merito all’allocazione delle risorse destinate all’assistenza sanitaria”.
Date queste premesse, Engelhardt delinea un modello di sanità logicamente coerente con gli assunti ricordati: un modello capace di tenere in considerazione la nostra diversità morale e la limitata autorità morale, dando perciò spazio ad una sorta di “competizione morale” all’interno della società.  Questo modello si dovrebbe fondare su “vouchers sanitari” (buoni-salute) forniti ai cittadini, da utilizzarsi da questi per acquistare assistenza sanitaria scegliendo tra una moltitudine di istituzioni, egualmente tutte riconosciute dallo Stato, istituzioni che diano la garanzia di forti convinzioni morali in merito all’espansione delle potenzialità umane e a proposito della corretta risposta da darsi di fronte alla finitezza umana. I cittadini possono perciò impiegare i vouchers per ottenere accesso al tipo di assistenza sanitaria più coerente con i loro valori e le loro aspettative morali. La società immaginata e delineata da Engelhardt è una società dove convivono sistemi sanitari differenti, coerenti con la religione di ciascuno e in competizione tra loro : ad esempio un sistema “Vaticare”, ispirato alla religione cattolica, dove al suo interno ci si rifiuterebbe di compiere aborti, suicidi assistiti, fecondazioni artificiali, trasferimento di embrioni, eutanasia; oppure un sistema “Buddacare” ispirato ai principi del buddismo; oppure un sistema “Islamacare”; e ancora un sistema per gli yuppies senza fede (“Agnosticare”), e anche un sistema “Ugualicare”, in cui gli individui potrebbero legalmente vincolare se stessi a ricevere assistenza entro un ristretto ventaglio di opzioni. Il modello farebbe coesistere pertanto concezioni spesso contrapposte sul vivere e sul morire.
In definitiva per Engelhardt non c’è una “morale” generale, ma tante morali quante possono essere le teste degli individui che compongono una società. Il pluralismo delle morali porta con sé, indissolubilmente e inevitabilmente, un pluralismo di valori ai quali, nell’impossibilità di effettuare gerarchie e priorità tra essi, andrebbe attribuito pari riconoscimento.   E, al di là dell’esercitazione logica in ottica “liberale” della costruzione di un modello fondato sul pluralismo dei valori, a ben vedere possiamo allargare oggi il ragionamento di Engelhardt a tanti campi del vivere sociale, e non solo confinarlo a quello dell’assistenza sanitaria.
Il pluralismo è ormai insito nelle nostre società del XXI secolo. Ne  sanno qualcosa gli inglesi, che proprio in questi giorni stanno ragionando sull’idea di abolire nelle scuole l’ora, peraltro facoltativa, di insegnamento della religione cristiana per sostituirla con un’ora obbligatoria di insegnamento delle “visioni del mondo” che contraddistinguono le tante comunità presenti nel Regno Unito, ormai abbondantemente pluralista.
Di fronte all’esaltazione teorica del pluralismo, che nell’ottica di un certo tipo di visione liberale della società trova certamente una sua giustificazione logica, e di fronte all’esaltazione del multiculturalismo della società britannica, che i promotori della proposta sopra ricordata definiscono “splendido” e che fornisce la linfa ideale alla proposta medesima, tornano però alla mente le considerazioni di un grande sociologo e filosofo tedesco , anche lui liberale, Ralf Dahrendorf, (tra l’altro, per lunghi anni Direttore della London School of Economics) il quale sottolineava che qualsiasi comunità organizzata ha bisogno di un sistema di riferimento – lui le chiamava “legature” – in grado di tenere insieme individui, gruppi, categorie sociali. Di fronte al trionfo del pluralismo delle morali e dei valori, cosa possono essere queste legature? Hanno ancora un senso?  E’ ancora possibile riunire intorno a un “comune sentire” le tante teste di individui che sembrano sempre meno inclini a relazionarsi con gli altri? E’ sufficiente un precetto giuridico per far funzionare bene le cose? Per caso, non stiamo forse assistendo ad un progressivo sgretolamento del “vivere in società”, che non è il vivere di feste mondane, ma è la capacità di ordinare gerarchicamente e riconoscere una sfera di diritti e una sfera di doveri, necessari per vivere, appunto, insieme e insieme deliberare sugli orientamenti che una comunità organizzata vuole darsi? In definitiva, non può darsi il caso che il pluralismo assunto a sistema di regolazione sociale possa pregiudicare la convivenza civile, dato che può impedire qualunque gerarchia di scelte? Quanto può valere o non valere il “principio di maggioranza” nella formazione di tante decisioni? E quanto possono o meno contribuire le grandi religioni alla riscoperta di queste legature? Sono tutti interrogativi che si prestano a risposte differenti, e tutte in qualche modo fondate. Ma sono interrogativi ineludibili, che attendono risposte meditate e il più possibile condivise. Risposte che implicano necessariamente una riflessione sul ruolo che ancora oggi  giocano le regole di convivenza e le gerarchie di valori che una comunità organizzata entro precisi ambiti territoriali si è data e si tramanda.  In sostanza, regole di convivenza e gerarchie di valori di quelle entità che i giuristi chiamano “entità statuali”, dotate di una precisa identità di fondo. E se esistono ancora queste entità e non si trascura il tema dell’identità di una comunità  statuale l’esigenza di costruire o preservare un sistema di “legature” si ripresenta implacabile.

venerdì 9 dicembre 2016

Le avventure della sovranità tra politica ed economia


Ci sembra interessante rileggere oggi, a distanza di ben diciotto anni, un libretto di Giuseppe Vacca (“Da un secolo all’altro. Mutamenti della politica del Novecento”,  Bompiani, 1998) , che contiene due saggi di sintesi sull’evoluzione della politica del Novecento e sui problemi con cui si è di volta in volta misurata. Uno di questi saggi, intitolato “Le avventure della sovranità”, ci dà lo spunto per alcune considerazioni. Per Vacca la globalizzazione -  che già allora si profilava in tutta la sua forza, dopo il venir meno del sistema di equilibrio bipolare delle due superpotenze mondiali, USA e URSS, simboleggiato dalla caduta del muro di Berlino - pone in crisi uno dei pilastri della “sovranità” così come per secoli è stata pensata, teorizzata e realizzata; vale a dire il pilastro del riferimento a un determinato territorio. La globalizzazione mette in crisi il potere fondato sulla territorialità, perché esige la creazione di “entità” a livello internazionale in grado di “governare” processi e relazioni economiche che scavalcano continuamente i confini degli Stati nazionali. Sulla base di questa considerazione, ormai diventata patrimonio comune delle analisi, vale la pena riflettere oggi sulle conclusioni della riflessione di Vacca: un sostanziale atto di fede nell’Euro come base per la creazione di una sovranità politica dell’Europa. Vale la pena trascrivere quanto scrive: atto di fede nell’Euro “non solo perché porrà le premesse anche delle politiche di sicurezza e delle politiche sociali favorendo la crescita di una società civile europea (lingua, cultura, diritto, partiti, sindacati, ecc.), ma soprattutto perché l’esistenza dell’Euro sarà la condizione minima, per gli europei, per negoziare un nuovo sistema monetario internazionale... Nel contesto  di una economia  globale non dovrebbe sorprendere che, invertendo il paradigma originario della modernità, la costruzione della sovranità  proceda dall’economia alla politica e non viceversa... Perciò la sovranità potrà rinascere solo nella forma della sovranazionalità, nel quadro di una cooperazione internazionale basata sulla interdipendenza e la reciprocità”. Spetterebbe a questa sovranazionalità, per Vacca, realizzare un nuovo generalizzato “Stato sociale”, secondo i migliori principi del riformismo socialista; un riformismo pensato però intorno allo slogan “dal Welfare delle garanzie al Welfare delle opportunità”, e quindi con la piena accettazione e applicazione di principi liberali e, in sostanza, dei meccanismi di mercato. Questa posizione, illustrata allora da uno degli intellettuali più acuti dell’area della sinistra, quale Vacca, a distanza di diciotto anni evidenzia il bagaglio di grandi ideali e di profonde illusioni che nutrì la costruzione della “nuova Europa”, quella che prese avvio dal trattato di Maastricht. Allora, sembrava che si aprisse effettivamente una nuova era, che coincideva anche con la presenza ai vertici del potere negli Stati europei, quasi ovunque, di coalizioni di  “centro sinistra” o comunque di ispirazione socialista. Allora sembrava giusto, dopo il fallimento del socialismo reale sovietico, rivedere la spinta ideale progressista alla luce dell’economia di mercato e pensare a un’entità sovranazionale - l’Europa politica – che avrebbe dovuto in definitiva “redistribuire” le risorse prodotte in un’ottica di maggiore  riequilibrio, per superare le distorsioni della globalizzazione, fatto in sé da accettare e “governare”. A  distanza di diciotto anni si può dire invece che la grande avventura storica della sovranità non ha ancora superato i confini nazionali. L’unica entità sovranazionale veramente tale, per usare la terminologia di Vacca, è l’insieme di istituzioni finanziarie che “governano” le monete, e l’unica reale “politica economica” è quella monetaria, che prevale di fronte a istituzioni politiche europee prive di reale autorità: le decisioni politiche restano infatti ancorate alle esigenze delle comunità territoriali rappresentate dagli Stati. Se l’economia doveva trascinare la politica verso un percorso di “modernità” sovranazionale, è accaduto invece che la politica non è stata disposta a seguire questo percorso. I motivi sono tanti, ma ci sembra che il più evidente sia che la politica si legittima con il consenso, che ricerca il consenso e  che questo consenso non può che essere collegato a precise comunità di riferimento, che trovano in concreto in un ben preciso territorio il loro riferimento di vita e di lavoro.  E oggi questo consenso, che si traduce nel voto, è più difficile da “catturare” e mantenere, perché il cemento delle grandi ideologie del Novecento è venuto meno e prevalgono sollecitazioni di vario genere (la prima forse è la voglia di sicurezza contro il terrorismo e la criminalità), unite a fortissime preoccupazioni per la convivenza  con etnie diverse, frutto delle ondate migratorie verso l’Europa, e per uno sviluppo stentato, che dà risposte solo parziali alla domanda di lavoro, aumentando il senso di precarietà e l’incertezza verso il futuro. Inoltre, a distanza di diciotto anni, appare più chiaro il motivo culturale per cui il mondo della sinistra ha accettato una globalizzazione che è diventata ben presto finanziarizzazione dell’economia, e come è oggi culturalmente difficile – dati questi presupposti culturali – elaborare strategie diverse. Ci sembra che la constatazione di fondo sia che la storia non è un percorso lineare né progressivo, che i problemi sovente si ripresentano, che la felicità degli europei non si persegue con astratte costruzioni elaborate “in alto”, poiché l’obbiettivo della sovranazionalità deve fare i conti con la gente che vota e che riversa sulla politica richieste che troppo sbrigativamente più di qualcuno etichetta come populismo. E ci sembra che il vero dato di fatto sia che oggi esiste una specie di “schizofrenia” istituzionale, tra una economia ormai globale e una politica che rimane “statuale” (e forse non potrebbe essere altrimenti) coerentemente con il principio della rappresentanza, che continua a trovare la sua legittimazione entro i confini territoriali degli Stati. Le conseguenze di questa frattura sono evidenti: la sovranità sembra appartenere alla sola economia, mentre la politica sembra sostanzialmente impotente a ristabilire il suo “primato”.
Da questa schizofrenia come si esce? Ci sembra che la “politica” dovrebbe riappropriarsi dell’economia, nel senso che dovrebbe spettare a classi dirigenti nazionali individuare modalità e sedi per iniziare a costruire un percorso comune che non dia la sensazione agli elettori di essere “espropriati” di decisioni importanti, frutto degli accordi di una ristretta classe di notabili e di finanzieri/economisti. In questa prospettiva, anche se la strada è la più difficile, ci sembra che una nuova Europa sovranazionale non possa che  scaturire dalle democrazie nazionali, e non viceversa. E, sempre in questa prospettiva, ci sembra poco corretto che -come accade già oggi – determinati orientamenti sociali e culturali siano “imposti” di fatto da decisioni comunitarie che sovente generalizzano approcci culturali che invece sono condivisi dalle coscienze sociali solo di alcuni Stati e non di altri, oppure che per direttiva europea si tenda alla standardizzazione economica di quelle diversità che fanno invece la ricchezza dell’economia e delle produzioni europee. In altre parole, c’è bisogno di una cultura che non neghi, ma faccia sintesi e, al tempo stesso, valorizzi in positivo le diversità. Il problema vero, e ad oggi irrisolto, sta proprio lì: nella presenza di una politica dotata di questa “cultura”.

martedì 22 novembre 2016

Democrazia senza rappresentanza?


La politica è comunemente definita come “l’arte del governare”. Per cercare di capire quali direzioni potrebbe prendere quest’arte in tempi complicati e difficili come quelli odierni, va assolutamente considerato un tema, per noi cruciale. Ci può aiutare a inquadrarlo la lettura dei commenti di alcuni esponenti politici italiani del partito di cui è segretario l’attuale premier,  dopo la recente vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane: commenti dove si lamentava in sostanza il fatto che decisioni importanti per la politica debbano essere lasciate al voto della grande massa dei cittadini, evidentemente giudicati incapaci di esprimere con il voto un giudizio meditato e sensibili solo a discorsi, come si usa dire, “di pancia”.  A parte il fatto che ci sarebbe da chiedersi dove sta muovendosi culturalmente il mondo della “sinistra” dopo  che per almeno due secoli si è battuta proprio per dar voce alle masse sulla scena politica, queste esternazioni non  sono infatti soltanto indicative quanto meno di un forte scollegamento (non vogliamo parlare di incomprensione) tra chi rappresenta e chi è  rappresentato – perché non si è stati in grado di leggere gli umori veri dell’elettorato americano – ma soprattutto rivelano l’emersione di una concezione della democrazia su cui vale la pena riflettere.  La democrazia , così com’è nata in Europa, è stata sempre costruita in un rapporto stretto con la rappresentanza: vale a dire sul principio che tutti i cittadini sono chiamati periodicamente ad esprimere il loro giudizio sul governo tramite il voto e a governare tramite eletti, perché la cosiddetta “democrazia diretta” - all’università si studiava così – non può reggere quando la comunità dei governati è complessa e di ampie dimensioni, e sul principio che questi eletti devono comunque essere appunto “rappresentativi” di tutte le componenti di una società.  Il rapporto strettissimo tra democrazia e rappresentanza ha accompagnato la nostra storia - italiana, europea e americana – e ha utilizzato svariati sistemi elettorali per realizzarsi: proporzionale, maggioritario, collegi uninominali, circoscrizioni elettorali, preferenze e così via: le leggi elettorali infatti determinano le modalità della rappresentanza e sono pensate in relazione alle peculiarità di ciascun Paese per assicurare governabilità e al tempo stesso rappresentatività a tutte le componenti sociali e territoriali. Questa impostazione ha funzionato per lunghissimo tempo, e nel Novecento ha trovato nei grandi partiti politici di massa dei soggetti in grado di esercitare una forte “mediazione” nell’esprimere le varie tendenze e propensioni (anche culturali, ideologiche, religiose) degli elettori e nell’organizzare e indirizzare in modo coerente con le loro aspettative i comportamenti degli eletti. Per lunghissimo tempo le strutture e le istituzioni hanno saputo assicurare rappresentanza e, insieme, governabilità. Oggi il quadro è cambiato: i grandi partiti di massa – entità impersonali tenute insieme da una comune cultura di relazioni politiche e ideologiche – sono diventati soprattutto dei grandi comitati a servizio dei leader e si sono impoveriti molto sul piano culturale; la società si è frammentata sempre di più e la base della convivenza sociale, fatta di valori comuni di riferimento, si è fatta sempre più esile e debole. La società sta caratterizzandosi sempre di più come una somma di tanti individui, e sempre meno come una comunità che si riconosce intorno a valori e principi comuni: in definitiva una comunità a identità sempre più debole.  Su questa società, fatta di individui sostanzialmente “isolati” ma al tempo stesso attentissimi a salvaguardare la propria dimensione personale, si sono calati problemi epocali: le diseguaglianze crescenti, la ricerca della sicurezza materiale e personale, esodi migratori di proporzioni bibliche, solo per ricordarne alcuni. Problemi che vanno ad aggiungersi, e spesso drammatizzano, i problemi di benessere, occupazione, salvaguardia dello Stato sociale su cui da sempre si è misurata la politica. Di fronte a tutto questo ci sembra che una certa classe politica spesso “improvvisata” nella sua consapevolezza dei problemi e spesso fondata su slogan e luoghi comuni corra il pericolo di cedere alla tentazione che la governabilità possa essere ottenuta attraverso operazioni di ingegneria legislativa tendenti a semplificare in modo rilevante la “domanda politica”, nella convinzione che, per questa via, sia possibile recuperare capacità di decisione.  Questa tendenza a concepire soluzioni del genere ci sembra spinta anche dal “contesto” in cui le classi dirigenti degli Stati a economia avanzata si trovano ad operare: un contesto di grande globalizzazione, dove acquistano sempre maggior peso decisionale organismi tecnici - siano essi la World Trade  Organization , la Banca Mondiale o la Banca Centrale Europea – che dovrebbero avere solo funzioni di governo su grandezze economiche o monetarie, ma che nei fatti sono oggi pressochè le uniche a imporre regole che vincolano, a volte in modo pesante, la discrezionalità degli Stati nella progettazione e realizzazione delle proprie politiche economiche. Le classi politiche nazionali si trovano perciò in un certo senso “spiazzate”: da un lato sono state elette da comunità legate a precisi ambiti territoriali e statali, dall’altro devono sovente uniformarsi a regole che provengono dall’esterno, da organismi di tecnici che si ritrovano in mano il “governo” dell’economia europea o mondiale senza alcuna legittimazione o investitura elettorale. E oggi, in un contesto “globalizzato”,  governare l’economia significa di fatto governare una gran parte delle questioni politiche, data la pervasività dei fatti economici sulle situazioni dei singoli Stati.  Non vorremmo che per superare questo spiazzamento alcuni esponenti politici siano tentati di ipotizzare soluzioni che riducano drasticamente il tasso di rappresentanza a favore della governabilità. In società frammentate come le nostre, prive di consenso anche su concetti fondamentali (pensiamo che in Italia, ad esempio, non si è più d’accordo nemmeno sul concetto di famiglia previsto nella Costituzione!) una riduzione della rappresentanza farà inevitabilmente crescere, anziché ridurli, senso di frustrazione e conflitti, e rafforzerebbe l’idea, già oggi diffusa, che la politica a livello nazionale e internazionale sia un affare esclusivo di una oligarchia autoreferenziale. Per questo motivo andrebbero sempre analizzate bene tutte le proposte che, attraverso l’invocazione del principio (in sé giusto, nell’ottica del recupero di efficienza ed efficacia decisionale) della “semplificazione” potrebbero nei fatti, anche al di là delle intenzioni di chi le propone, determinare una mutilazione della rappresentanza di territori, categorie, gruppi, orientamenti culturali e sociali. La strada giusta ci sembra un’altra, certamente più difficile e faticosa, ma probabilmente l’unica idonea a ricucire il rapporto oggi abbastanza strappato tra eletti ed elettori: governare senza paura la complessità dei fatti, ricostruire comunità fondate su principi identitari condivisi recuperando una “coscienza di territorio” come espressione della rappresentanza politica, non rifiutare di misurarsi o disprezzare il dissenso, adottare comportamenti coerenti e trasparenti, pretendere chiarezza nei rapporti internazionali per costruire strutture e regole che risultino meno oligarchiche e opache  di quanto appare oggi. Non ci sono soluzioni facili per problemi complessi: l’importante è averne coscienza ed esprimere una “classe politica” di eletti che sia anche culturalmente attrezzata per affrontarli, evitando l’illusione offerta da scorciatoie istituzionali seducenti ma pericolose per la tenuta complessiva della società.

sabato 5 novembre 2016

Brexit: note su una sentenza


La recentissima decisione dell’Alta Corte di Londra sulla necessità di sottoporre al vaglio del Parlamento inglese il risultato del referendum popolare, che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, offre lo spunto per alcune riflessioni.  Si potrebbe ragionare sulle criticità del rapporto tra politica e giustizia, come hanno fatto alcuni commentatori, o sul rapporto tra democrazia diretta  e democrazia indiretta, vale a dire quella democrazia che esprime decisioni per mezzo di assemblee elettive, come appunto i Parlamenti, e sui limiti della prima nei confronti della seconda.  Al di là del fatto specifico, la vera riflessione riguarda però il rapporto che si è instaurato oggi a livello europeo (ma non solo) tra politica ed economia, dove per economia va intesa soprattutto la finanza. Questo rapporto, a guardar bene, si risolve essenzialmente in una profonda contraddizione, che alla lunga può risultare dirompente.  Infatti il vero problema sta nel fatto, certamente incontrovertibile, che il processo di accelerazione  dell’integrazione europea è avvenuto privilegiando in modo pressochè esclusivo la creazione di un’architettura fondata sulla moneta unica, e quindi sul ruolo delle Banche Centrali e della Banca Centrale Europea per governare la stabilità monetaria e rendere compatibili con una moneta unica le finanze pubbliche degli Stati membri, che devono uniformarsi all’osservanza di parametri ben precisi nei rapporti tra i loro deficit di bilancio e i loro Prodotti Interni Lordi, il famoso PIL che rappresenta la misura della ricchezza di un Paese.  Questo processo di integrazione monetaria, che ha comportato l’attribuzione di un ruolo di guida  delle grandezze monetarie alla BCE, rendendo le Banche Centrali dei singoli Paesi prive di sostanziale sovranità sul governo della moneta come invece accadeva nel passato, ha accentrato le decisioni di politica finanziaria e monetaria a livello europeo, ma ha lasciato ai livelli nazionali la gran parte delle decisioni politiche. Con un solo risultato:  la politica, a livello dei singoli Stati, fa molta fatica ad esercitare il suo mestiere, che è quello di operare per assicurare occupazione e sviluppo, da sempre gli obiettivi fondamentali di qualsiasi politica economica. Come si fa a creare condizioni di sviluppo, quando  a livello europeo i trattati obbligano a rispettare determinati vincoli di bilancio, a non utilizzare oltre determinate soglie la spesa pubblica come volano di crescita, a uniformarsi a regole che risentono dell’influenza (inevitabile) degli Stati più forti all’interno dell’Unione?  La situazione è un po’ schizofrenica e in un certo senso paradossale, perché la politica nazionale si trova abbastanza impotente di fronte a una logica finanziaria e monetaria che si dimostra invece “pervasiva” delle istituzioni e dei processi di decisione nazionali. E per di più ci sarebbe da discutere molto sulla reale volontà della politica dei singoli Stati  ad espropriarsi di compiti e competenze fondamentali: è come chiedere, di fatto, ad un uomo politico di annullare il suo futuro e suicidarsi politicamente. Da questa divaricazione di poteri e di finalità nasce buona parte del disagio attuale: le opinioni pubbliche nazionali, specialmente quelle di Paesi dove le finanze pubbliche non consentono grandi azioni di sviluppo - a parte la Grecia, l’Italia è tra questi – a causa della massa di debito pubblico accumulata negli anni, si sentono prigioniere di logiche governate da tecnici che non hanno ricevuto alcuna investitura politica, che non rispondono a nessun Parlamento e che vengono percepiti come lontani, insensibili alle esigenze di benessere e di sviluppo avanzate dalle comunità degli Stati membri.  Da qui, a pensare ad un governo di tecnocrati oligarchi il passo è breve. Ed è da qui che nasce la diffidenza verso istituzioni comunitarie percepite come club ristretti ed esclusivi; da qui nasce la percezione dell’Unione Europea come un’entità astratta e talvolta ostile, che molti, così com’è ora, non nascondono di voler rifiutare. Dietro il referendum inglese vi è un po’ tutto questo, accentuato da un orgoglio british che nella storia ha sempre giocato un ruolo importante . E dietro la sentenza dell’Alta Corte vi è di fatto lo scontro tra due concezioni dell’Europa come dovrebbe essere: o un agglomerato di interessi finanziari, che non ammette ostacoli ( non a caso la promotrice del ricorso all’Alta Corte è una manager esponente di  interessi “pro Europa”), o un agglomerato di Stati sovrani che decidono di mantenere autonomia di scelta sul proprio futuro, sulla base dell’assunto che “il potere appartiene al popolo”, che lo esercita secondo le regole e i limiti previsti dalle rispettive Costituzioni. Sappiamo tutti il perché dell’accelerazione all’integrazione europea su basi monetarie. Si pensava che la politica, come la famosa intendenza di Napoleone, “avrebbe seguito”. In realtà la lontananza dell’Europa della finanza dall’economia reale e i disagi sociali nei vari Paesi costringono l’intendenza a non seguire l’avanguardia. In questa prospettiva, la sentenza dell’Alta Corte di Londra non risolve alcun problema, anzi potrebbe accentuare processi di disgregazione ad ogni livello.
L’Europa è importante, ma forse sarebbe il caso di ripensarla sul serio, a costo anche di rivedere quanto finora è stato realizzato.

domenica 30 ottobre 2016

Da Basilea III a “Basilea IV”: troveremo ancora le banche?


A livello europeo si parla di una imminente revisione degli standard dell’intesa denominata “Basilea III”, per  realizzare una nuova intesa denominata “Basilea IV”. Già con l’intesa oggi in vigore i requisiti patrimoniali, richiesti alle banche italiane ed europee per poter operare senza incorrere nei rilievi e nelle imposizioni della Banca Centrale Europea, sono aumentati e hanno inevitabilmente comportato restrizioni creditizie nei confronti della  clientela, persone e imprese.
La prudenza in materia finanziaria per gli istituti di credito è un criterio importante, ma quando si fondano direttive generali su meccanismi di estrema cautela finanziaria sulla base della preoccupazione – di per sé giusta – di disporre di banche patrimonialmente “solide” e quando per realizzare questo obiettivo si esaspera la ricerca della patrimonializzazione gli effetti non possono che essere, come direbbero gli economisti, “prociclici”. Si amplificano cioè le tendenze in atto in un determinato momento nel sistema economico: se la fase del ciclo economico è in espansione il credito bancario è più disponibile, anche se le imprese generano utili e forse ne hanno meno bisogno; se la fase invece presenta tratti di stagnazione o recessione (e da noi questa fase dura ormai da tanto tempo) il ricorso al credito bancario per sostenere la continuità dell’impresa risulta meno agevole. Le banche si fidano meno e temono di incrementare la massa dei crediti inesigibili pregiudicando il rispetto dei requisiti patrimoniali richiesti dalle autorità bancarie nazionali e internazionali. Purtroppo questo meccanismo concorre così a mantenere un sistema economico nella stagnazione, che ha tante cause, ma, non ultima, proprio questa.
Con “Basilea IV”, almeno riferendosi a quanto previsto attualmente, i metodi interni per la valutazione del rischio di credito - che tutte le banche utilizzano – potrebbero essere aboliti o fortemente ridimensionati a favore dell’applicazione di un metodo standardizzato che obbligherebbe le banche a ricorrere ad aumenti di capitale rilevanti, per rispettare i  requisiti patrimoniali che il nuovo metodo imporrebbe.  E’ chiaro che così i finanziamenti alle imprese – la cosiddetta “economia reale” – si contrarrebbero ancora di più.
Di quanto capitale aggiuntivo ci sarebbe bisogno? Secondo un’analisi dell’Associazione Bancaria Italiana condotta su 18  realtà  italiane sulla base dei dati 2013-2015, più del 25% delle strutture bancarie di minori dimensioni con il calcolo standardizzato registrerebbero aumenti dei requisiti patrimoniali minimi consentiti. Per il campione nel suo complesso l’aumento medio sarebbe del 46%, e un quarto registrerebbe un aumento pari o maggiore al 72% rispetto ai requisiti rispettati attualmente.
C’è da chiedersi se la cautela finanziaria – frutto di una reazione a livello internazionale a certa finanza “disinvolta” praticata in passato da molte banche – non stia progressivamente diventando una camicia di forza per le capacità operative delle banche. E c’è da chiedersi come se la caveranno le banche più piccole, che spesso sono anche quelle che in Italia (ma non solo, se pensiamo alle banche locali tedesche) fanno fronte alle esigenze di credito dei territori dove sono insediate e dove trovano la maggior parte dei clienti. E’ evidente che si dovrà infatti ricorrere a fusioni e accorpamenti tra banche, in misura molto maggiore di quanto già accade oggi, rendendo sempre più esile il legame tra banca e territorio e spersonalizzando sempre di più il rapporto tra chi eroga il credito e chi lo ottiene.
Non sappiamo se le trattative  in corso produrranno modifiche all’impianto pensato finora, e speriamo in un ripensamento.  In tutto questo leggiamo comunque un ulteriore elemento di scollamento della finanza dall’economia reale, per noi lo strumento principale per creare sviluppo. Ci sembra che la finanza  stia vivendo dinamiche sempre più autoreferenziali, che la impegnano in una corsa solitaria, quando invece risulta sempre più evidente la necessità di ricomporre un quadro logico delle relazioni economiche, ristabilendo legami solidi (ma certamente trasparenti e compatibili con una corretta gestione) tra finanza e impresa.