sabato 5 novembre 2016

Brexit: note su una sentenza


La recentissima decisione dell’Alta Corte di Londra sulla necessità di sottoporre al vaglio del Parlamento inglese il risultato del referendum popolare, che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, offre lo spunto per alcune riflessioni.  Si potrebbe ragionare sulle criticità del rapporto tra politica e giustizia, come hanno fatto alcuni commentatori, o sul rapporto tra democrazia diretta  e democrazia indiretta, vale a dire quella democrazia che esprime decisioni per mezzo di assemblee elettive, come appunto i Parlamenti, e sui limiti della prima nei confronti della seconda.  Al di là del fatto specifico, la vera riflessione riguarda però il rapporto che si è instaurato oggi a livello europeo (ma non solo) tra politica ed economia, dove per economia va intesa soprattutto la finanza. Questo rapporto, a guardar bene, si risolve essenzialmente in una profonda contraddizione, che alla lunga può risultare dirompente.  Infatti il vero problema sta nel fatto, certamente incontrovertibile, che il processo di accelerazione  dell’integrazione europea è avvenuto privilegiando in modo pressochè esclusivo la creazione di un’architettura fondata sulla moneta unica, e quindi sul ruolo delle Banche Centrali e della Banca Centrale Europea per governare la stabilità monetaria e rendere compatibili con una moneta unica le finanze pubbliche degli Stati membri, che devono uniformarsi all’osservanza di parametri ben precisi nei rapporti tra i loro deficit di bilancio e i loro Prodotti Interni Lordi, il famoso PIL che rappresenta la misura della ricchezza di un Paese.  Questo processo di integrazione monetaria, che ha comportato l’attribuzione di un ruolo di guida  delle grandezze monetarie alla BCE, rendendo le Banche Centrali dei singoli Paesi prive di sostanziale sovranità sul governo della moneta come invece accadeva nel passato, ha accentrato le decisioni di politica finanziaria e monetaria a livello europeo, ma ha lasciato ai livelli nazionali la gran parte delle decisioni politiche. Con un solo risultato:  la politica, a livello dei singoli Stati, fa molta fatica ad esercitare il suo mestiere, che è quello di operare per assicurare occupazione e sviluppo, da sempre gli obiettivi fondamentali di qualsiasi politica economica. Come si fa a creare condizioni di sviluppo, quando  a livello europeo i trattati obbligano a rispettare determinati vincoli di bilancio, a non utilizzare oltre determinate soglie la spesa pubblica come volano di crescita, a uniformarsi a regole che risentono dell’influenza (inevitabile) degli Stati più forti all’interno dell’Unione?  La situazione è un po’ schizofrenica e in un certo senso paradossale, perché la politica nazionale si trova abbastanza impotente di fronte a una logica finanziaria e monetaria che si dimostra invece “pervasiva” delle istituzioni e dei processi di decisione nazionali. E per di più ci sarebbe da discutere molto sulla reale volontà della politica dei singoli Stati  ad espropriarsi di compiti e competenze fondamentali: è come chiedere, di fatto, ad un uomo politico di annullare il suo futuro e suicidarsi politicamente. Da questa divaricazione di poteri e di finalità nasce buona parte del disagio attuale: le opinioni pubbliche nazionali, specialmente quelle di Paesi dove le finanze pubbliche non consentono grandi azioni di sviluppo - a parte la Grecia, l’Italia è tra questi – a causa della massa di debito pubblico accumulata negli anni, si sentono prigioniere di logiche governate da tecnici che non hanno ricevuto alcuna investitura politica, che non rispondono a nessun Parlamento e che vengono percepiti come lontani, insensibili alle esigenze di benessere e di sviluppo avanzate dalle comunità degli Stati membri.  Da qui, a pensare ad un governo di tecnocrati oligarchi il passo è breve. Ed è da qui che nasce la diffidenza verso istituzioni comunitarie percepite come club ristretti ed esclusivi; da qui nasce la percezione dell’Unione Europea come un’entità astratta e talvolta ostile, che molti, così com’è ora, non nascondono di voler rifiutare. Dietro il referendum inglese vi è un po’ tutto questo, accentuato da un orgoglio british che nella storia ha sempre giocato un ruolo importante . E dietro la sentenza dell’Alta Corte vi è di fatto lo scontro tra due concezioni dell’Europa come dovrebbe essere: o un agglomerato di interessi finanziari, che non ammette ostacoli ( non a caso la promotrice del ricorso all’Alta Corte è una manager esponente di  interessi “pro Europa”), o un agglomerato di Stati sovrani che decidono di mantenere autonomia di scelta sul proprio futuro, sulla base dell’assunto che “il potere appartiene al popolo”, che lo esercita secondo le regole e i limiti previsti dalle rispettive Costituzioni. Sappiamo tutti il perché dell’accelerazione all’integrazione europea su basi monetarie. Si pensava che la politica, come la famosa intendenza di Napoleone, “avrebbe seguito”. In realtà la lontananza dell’Europa della finanza dall’economia reale e i disagi sociali nei vari Paesi costringono l’intendenza a non seguire l’avanguardia. In questa prospettiva, la sentenza dell’Alta Corte di Londra non risolve alcun problema, anzi potrebbe accentuare processi di disgregazione ad ogni livello.
L’Europa è importante, ma forse sarebbe il caso di ripensarla sul serio, a costo anche di rivedere quanto finora è stato realizzato.

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