La recentissima decisione dell’Alta Corte di Londra sulla
necessità di sottoporre al vaglio del Parlamento inglese il risultato del
referendum popolare, che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione
Europea, offre lo spunto per alcune riflessioni. Si potrebbe ragionare sulle criticità del
rapporto tra politica e giustizia, come hanno fatto alcuni commentatori, o sul
rapporto tra democrazia diretta e
democrazia indiretta, vale a dire quella democrazia che esprime decisioni per
mezzo di assemblee elettive, come appunto i Parlamenti, e sui limiti della
prima nei confronti della seconda. Al di
là del fatto specifico, la vera riflessione riguarda però il rapporto che si è
instaurato oggi a livello europeo (ma non solo) tra politica ed economia, dove
per economia va intesa soprattutto la finanza. Questo rapporto, a guardar bene,
si risolve essenzialmente in una profonda contraddizione, che alla lunga può
risultare dirompente. Infatti il vero
problema sta nel fatto, certamente incontrovertibile, che il processo di
accelerazione dell’integrazione europea
è avvenuto privilegiando in modo pressochè esclusivo la creazione di
un’architettura fondata sulla moneta unica, e quindi sul ruolo delle Banche
Centrali e della Banca Centrale Europea per governare la stabilità monetaria e
rendere compatibili con una moneta unica le finanze pubbliche degli Stati
membri, che devono uniformarsi all’osservanza di parametri ben precisi nei
rapporti tra i loro deficit di bilancio e i loro Prodotti Interni Lordi, il
famoso PIL che rappresenta la misura della ricchezza di un Paese. Questo processo di integrazione monetaria,
che ha comportato l’attribuzione di un ruolo di guida delle grandezze monetarie alla BCE, rendendo
le Banche Centrali dei singoli Paesi prive di sostanziale sovranità sul governo
della moneta come invece accadeva nel passato, ha accentrato le decisioni di
politica finanziaria e monetaria a livello europeo, ma ha lasciato ai livelli
nazionali la gran parte delle decisioni politiche. Con un solo risultato: la politica, a livello dei singoli Stati, fa
molta fatica ad esercitare il suo mestiere, che è quello di operare per
assicurare occupazione e sviluppo, da sempre gli obiettivi fondamentali di
qualsiasi politica economica. Come si fa a creare condizioni di sviluppo,
quando a livello europeo i trattati
obbligano a rispettare determinati vincoli di bilancio, a non utilizzare oltre
determinate soglie la spesa pubblica come volano di crescita, a uniformarsi a
regole che risentono dell’influenza (inevitabile) degli Stati più forti
all’interno dell’Unione? La situazione è
un po’ schizofrenica e in un certo senso paradossale, perché la politica
nazionale si trova abbastanza impotente di fronte a una logica finanziaria e
monetaria che si dimostra invece “pervasiva” delle istituzioni e dei processi
di decisione nazionali. E per di più ci sarebbe da discutere molto sulla reale
volontà della politica dei singoli Stati
ad espropriarsi di compiti e competenze fondamentali: è come chiedere,
di fatto, ad un uomo politico di annullare il suo futuro e suicidarsi
politicamente. Da questa divaricazione di poteri e di finalità nasce buona
parte del disagio attuale: le opinioni pubbliche nazionali, specialmente quelle
di Paesi dove le finanze pubbliche non consentono grandi azioni di sviluppo - a
parte la Grecia, l’Italia è tra questi – a causa della massa di debito pubblico
accumulata negli anni, si sentono prigioniere di logiche governate da tecnici
che non hanno ricevuto alcuna investitura politica, che non rispondono a nessun
Parlamento e che vengono percepiti come lontani, insensibili alle esigenze di
benessere e di sviluppo avanzate dalle comunità degli Stati membri. Da qui, a pensare ad un governo di tecnocrati
oligarchi il passo è breve. Ed è da qui che nasce la diffidenza verso
istituzioni comunitarie percepite come club ristretti ed esclusivi; da qui
nasce la percezione dell’Unione Europea come un’entità astratta e talvolta
ostile, che molti, così com’è ora, non nascondono di voler rifiutare. Dietro il
referendum inglese vi è un po’ tutto questo, accentuato da un orgoglio british
che nella storia ha sempre giocato un ruolo importante . E dietro la sentenza
dell’Alta Corte vi è di fatto lo scontro tra due concezioni dell’Europa come dovrebbe
essere: o un agglomerato di interessi finanziari, che non ammette ostacoli (
non a caso la promotrice del ricorso all’Alta Corte è una manager esponente
di interessi “pro Europa”), o un
agglomerato di Stati sovrani che decidono di mantenere autonomia di scelta sul
proprio futuro, sulla base dell’assunto che “il potere appartiene al popolo”,
che lo esercita secondo le regole e i limiti previsti dalle rispettive
Costituzioni. Sappiamo tutti il perché dell’accelerazione all’integrazione
europea su basi monetarie. Si pensava che la politica, come la famosa
intendenza di Napoleone, “avrebbe seguito”. In realtà la lontananza dell’Europa
della finanza dall’economia reale e i disagi sociali nei vari Paesi costringono
l’intendenza a non seguire l’avanguardia. In questa prospettiva, la sentenza
dell’Alta Corte di Londra non risolve alcun problema, anzi potrebbe accentuare
processi di disgregazione ad ogni livello.
L’Europa è importante, ma forse sarebbe il caso di
ripensarla sul serio, a costo anche di rivedere quanto finora è stato
realizzato.
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