martedì 22 novembre 2016

Democrazia senza rappresentanza?


La politica è comunemente definita come “l’arte del governare”. Per cercare di capire quali direzioni potrebbe prendere quest’arte in tempi complicati e difficili come quelli odierni, va assolutamente considerato un tema, per noi cruciale. Ci può aiutare a inquadrarlo la lettura dei commenti di alcuni esponenti politici italiani del partito di cui è segretario l’attuale premier,  dopo la recente vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane: commenti dove si lamentava in sostanza il fatto che decisioni importanti per la politica debbano essere lasciate al voto della grande massa dei cittadini, evidentemente giudicati incapaci di esprimere con il voto un giudizio meditato e sensibili solo a discorsi, come si usa dire, “di pancia”.  A parte il fatto che ci sarebbe da chiedersi dove sta muovendosi culturalmente il mondo della “sinistra” dopo  che per almeno due secoli si è battuta proprio per dar voce alle masse sulla scena politica, queste esternazioni non  sono infatti soltanto indicative quanto meno di un forte scollegamento (non vogliamo parlare di incomprensione) tra chi rappresenta e chi è  rappresentato – perché non si è stati in grado di leggere gli umori veri dell’elettorato americano – ma soprattutto rivelano l’emersione di una concezione della democrazia su cui vale la pena riflettere.  La democrazia , così com’è nata in Europa, è stata sempre costruita in un rapporto stretto con la rappresentanza: vale a dire sul principio che tutti i cittadini sono chiamati periodicamente ad esprimere il loro giudizio sul governo tramite il voto e a governare tramite eletti, perché la cosiddetta “democrazia diretta” - all’università si studiava così – non può reggere quando la comunità dei governati è complessa e di ampie dimensioni, e sul principio che questi eletti devono comunque essere appunto “rappresentativi” di tutte le componenti di una società.  Il rapporto strettissimo tra democrazia e rappresentanza ha accompagnato la nostra storia - italiana, europea e americana – e ha utilizzato svariati sistemi elettorali per realizzarsi: proporzionale, maggioritario, collegi uninominali, circoscrizioni elettorali, preferenze e così via: le leggi elettorali infatti determinano le modalità della rappresentanza e sono pensate in relazione alle peculiarità di ciascun Paese per assicurare governabilità e al tempo stesso rappresentatività a tutte le componenti sociali e territoriali. Questa impostazione ha funzionato per lunghissimo tempo, e nel Novecento ha trovato nei grandi partiti politici di massa dei soggetti in grado di esercitare una forte “mediazione” nell’esprimere le varie tendenze e propensioni (anche culturali, ideologiche, religiose) degli elettori e nell’organizzare e indirizzare in modo coerente con le loro aspettative i comportamenti degli eletti. Per lunghissimo tempo le strutture e le istituzioni hanno saputo assicurare rappresentanza e, insieme, governabilità. Oggi il quadro è cambiato: i grandi partiti di massa – entità impersonali tenute insieme da una comune cultura di relazioni politiche e ideologiche – sono diventati soprattutto dei grandi comitati a servizio dei leader e si sono impoveriti molto sul piano culturale; la società si è frammentata sempre di più e la base della convivenza sociale, fatta di valori comuni di riferimento, si è fatta sempre più esile e debole. La società sta caratterizzandosi sempre di più come una somma di tanti individui, e sempre meno come una comunità che si riconosce intorno a valori e principi comuni: in definitiva una comunità a identità sempre più debole.  Su questa società, fatta di individui sostanzialmente “isolati” ma al tempo stesso attentissimi a salvaguardare la propria dimensione personale, si sono calati problemi epocali: le diseguaglianze crescenti, la ricerca della sicurezza materiale e personale, esodi migratori di proporzioni bibliche, solo per ricordarne alcuni. Problemi che vanno ad aggiungersi, e spesso drammatizzano, i problemi di benessere, occupazione, salvaguardia dello Stato sociale su cui da sempre si è misurata la politica. Di fronte a tutto questo ci sembra che una certa classe politica spesso “improvvisata” nella sua consapevolezza dei problemi e spesso fondata su slogan e luoghi comuni corra il pericolo di cedere alla tentazione che la governabilità possa essere ottenuta attraverso operazioni di ingegneria legislativa tendenti a semplificare in modo rilevante la “domanda politica”, nella convinzione che, per questa via, sia possibile recuperare capacità di decisione.  Questa tendenza a concepire soluzioni del genere ci sembra spinta anche dal “contesto” in cui le classi dirigenti degli Stati a economia avanzata si trovano ad operare: un contesto di grande globalizzazione, dove acquistano sempre maggior peso decisionale organismi tecnici - siano essi la World Trade  Organization , la Banca Mondiale o la Banca Centrale Europea – che dovrebbero avere solo funzioni di governo su grandezze economiche o monetarie, ma che nei fatti sono oggi pressochè le uniche a imporre regole che vincolano, a volte in modo pesante, la discrezionalità degli Stati nella progettazione e realizzazione delle proprie politiche economiche. Le classi politiche nazionali si trovano perciò in un certo senso “spiazzate”: da un lato sono state elette da comunità legate a precisi ambiti territoriali e statali, dall’altro devono sovente uniformarsi a regole che provengono dall’esterno, da organismi di tecnici che si ritrovano in mano il “governo” dell’economia europea o mondiale senza alcuna legittimazione o investitura elettorale. E oggi, in un contesto “globalizzato”,  governare l’economia significa di fatto governare una gran parte delle questioni politiche, data la pervasività dei fatti economici sulle situazioni dei singoli Stati.  Non vorremmo che per superare questo spiazzamento alcuni esponenti politici siano tentati di ipotizzare soluzioni che riducano drasticamente il tasso di rappresentanza a favore della governabilità. In società frammentate come le nostre, prive di consenso anche su concetti fondamentali (pensiamo che in Italia, ad esempio, non si è più d’accordo nemmeno sul concetto di famiglia previsto nella Costituzione!) una riduzione della rappresentanza farà inevitabilmente crescere, anziché ridurli, senso di frustrazione e conflitti, e rafforzerebbe l’idea, già oggi diffusa, che la politica a livello nazionale e internazionale sia un affare esclusivo di una oligarchia autoreferenziale. Per questo motivo andrebbero sempre analizzate bene tutte le proposte che, attraverso l’invocazione del principio (in sé giusto, nell’ottica del recupero di efficienza ed efficacia decisionale) della “semplificazione” potrebbero nei fatti, anche al di là delle intenzioni di chi le propone, determinare una mutilazione della rappresentanza di territori, categorie, gruppi, orientamenti culturali e sociali. La strada giusta ci sembra un’altra, certamente più difficile e faticosa, ma probabilmente l’unica idonea a ricucire il rapporto oggi abbastanza strappato tra eletti ed elettori: governare senza paura la complessità dei fatti, ricostruire comunità fondate su principi identitari condivisi recuperando una “coscienza di territorio” come espressione della rappresentanza politica, non rifiutare di misurarsi o disprezzare il dissenso, adottare comportamenti coerenti e trasparenti, pretendere chiarezza nei rapporti internazionali per costruire strutture e regole che risultino meno oligarchiche e opache  di quanto appare oggi. Non ci sono soluzioni facili per problemi complessi: l’importante è averne coscienza ed esprimere una “classe politica” di eletti che sia anche culturalmente attrezzata per affrontarli, evitando l’illusione offerta da scorciatoie istituzionali seducenti ma pericolose per la tenuta complessiva della società.

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