domenica 3 febbraio 2019

Quotidiane cronache di inciviltà da una società disgregata


Questa riflessione nasce da un fatto di cronaca, nemmeno particolarmente “eclatante” ma emblematico dello stato dei rapporti tra gruppi sociali e individui nella nostra società italiana. Il fatto è questo: qualche tempo fa -  almeno a quanto riferito dai social network  - la Presidente del Municipio di Roma, appartenente ad una determinata area politica, insieme ad alcune consigliere e cittadine, ha diretto un “blitz” contro la sede del Movimento Pro Vita a Roma, per coprire un manifesto regolarmente affisso in vetrina, raffigurante un bimbo di 11 settimane nel grembo materno, e imbrattando la sede con cartelli abusivi in favore dell’aborto.
Si dirà: niente di nuovo sotto il sole. Questo è uno dei tanti fatti di cronaca che denotano i livelli di conflittualità della dialettica politica e sociale nella nostra comunità italiana. Ai tempi del mitico ’68 e negli anni degli aspri conflitti sindacali degli anni ’70 si è visto certamente di  peggio. Ma questo fatto, che vede da un lato come parte danneggiata un Movimento in prima linea con numerose iniziative di comunicazione a favore della vita del nascituro e come parte “danneggiante” l’area abortista, è per noi uno dei tantissimi sintomi di una progressiva disgregazione del confronto sociale e l’indice di un degrado crescente nelle regole di convivenza, regole  alle quali dovrebbero ricondursi anche i momenti di contrapposizione ideologica, inevitabili in una democrazia e in una società plurale come quella italiana.
Per noi è in atto un preoccupante radicalismo che si mescola alla frammentazione sociale. Sono tanti i comportamenti che attestano una pericolosa caduta del senso civico e della capacità di coesistenza in una società complessa. In Italia ne abbiamo esempi pressochè quotidiani: dal dilagare dell’insulto via social network accompagnato alla scarsissima propensione al confronto delle idee; alle invettive politiche; alla demonizzazione di chi la pensa in modo diverso; all’assoluta mancanza di senso delle istituzioni di cui molti amministratori pubblici danno prova, incitando alla contravvenzione delle norme per una asserita “disobbedienza civile” di fronte a temi politicamente sensibili (pensiamo alle dichiarazioni e ai comportamenti di alcuni Sindaci sui temi dell’immigrazione clandestina); e si potrebbe continuare a lungo. In sostanza, sembra che si stia formando una società sempre meno improntata alla tolleranza, dove si smarrisce il senso dei ruoli istituzionali e dove il livello di rabbia e di livore è inversamente proporzionale al livello di comprensione meditata dei fenomeni e dei comportamenti degli altri. Ci si comprende sempre di meno, e anche sui principi di riferimento si è sempre meno d’accordo. Sembra che ciascuno pensi di detenere il monopolio della verità, e in questo clima si snatura il senso regolatore della legge, e si delegittimano continuamente le istituzioni e quanto di “collettivo” esse rappresentano.
A prescindere da ogni valutazione sul fatto riferito e sui comportamenti sopra ricordati, ci sembra che tutto ciò ci porti a ragionare, ancora una volta, su ciò che sta alla base della tolleranza e di conseguenza sugli elementi che possono “tenere insieme” società come le nostre. I sostenitori del primato della legge  riaffermano continuamente che il collante delle società complesse è in fondo proprio l’architettura di una democrazia “procedurale”, dove  la legge si forma, e va di conseguenza osservata, se obbedisce alle regole della democrazia rappresentativa. La convivenza civile e le forme e i modi della sua evoluzione trovano perciò nelle sole regole della democrazia parlamentare e, naturalmente con le tutele che questa stessa democrazia stabilisce per le minoranze, nel principio di maggioranza la loro spiegazione e giustificazione.  Il problema è – e i fatti sono lì a testimoniarlo – che questo principio si sta dimostrando sempre meno adeguato a costruire un quadro di riferimento condiviso dalla generalità di gruppi e cittadini. La legge da sola non tiene più insieme un corpo sociale, anzi in taluni casi viene apertamente rifiutata.  Ancora una volta, allora, non possiamo che tornare a riflettere sul fatto che le regole e le procedure devono trovare alla base un insieme di valori condivisi: valori che riguardano sia il modo di confrontarsi sulla scena politica e sociale, sia una accettata gerarchia di “principi primi” cui rapportarsi sul piano etico e nei rapporti interpersonali. Non dobbiamo del resto dimenticarci che, storicamente, la democrazia rappresentativa è stata elaborata in un contesto dove nessuno metteva in dubbio i valori di riferimento su cui si fondava la convivenza civile e dove nessuno pensava di adottare comportamenti che mettessero in dubbio il significato della legge e delle istituzioni. Per questi motivi così, ancora una volta, bisogna tornare a ragionare sul come fare per ricostruire una coscienza etica e una coscienza civile, che le attuali derive comportamentali, rafforzate dalla superficialità del confronto e del dibattito sui network, mettono sempre più in discussione. Non è solo un problema di istruzione o di cultura, che pure sono importantissime. Il tema non più eludibile è un confronto vero sull’importanza di alcuni “valori fondanti” per tenere insieme società complesse.
E’ troppo pretendere almeno dai rappresentanti delle istituzioni – lo è anche il municipio di Roma Capitale –comportamenti in grado di “educare” i cittadini al rispetto delle idee diverse dalle proprie e alla tolleranza? Non sappiamo se questi e altri interrogativi istituzionali si siano presentati alla mente della Presidente del Municipio di Roma , e non sapremo mai se il comportamento descritto sia soltanto frutto della sua ansia di movimentismo “pro aborto”, oppure se rappresenti la spia di fortissimi deficit culturali su cosa sia la democrazia rappresentativa.

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