Questa riflessione
nasce da un fatto di cronaca, nemmeno particolarmente “eclatante” ma
emblematico dello stato dei rapporti tra gruppi sociali e individui nella
nostra società italiana. Il fatto è questo: qualche tempo fa - almeno a quanto riferito dai social network - la Presidente del Municipio di Roma,
appartenente ad una determinata area politica, insieme ad alcune consigliere e
cittadine, ha diretto un “blitz” contro la sede del Movimento Pro Vita a Roma,
per coprire un manifesto regolarmente affisso in vetrina, raffigurante un bimbo
di 11 settimane nel grembo materno, e imbrattando la sede con cartelli abusivi
in favore dell’aborto.
Si dirà: niente di nuovo sotto il sole. Questo è uno dei
tanti fatti di cronaca che denotano i livelli di conflittualità della
dialettica politica e sociale nella nostra comunità italiana. Ai tempi del
mitico ’68 e negli anni degli aspri conflitti sindacali degli anni ’70 si è
visto certamente di peggio. Ma questo
fatto, che vede da un lato come parte danneggiata un Movimento in prima linea
con numerose iniziative di comunicazione a favore della vita del nascituro e
come parte “danneggiante” l’area abortista, è per noi uno dei tantissimi
sintomi di una progressiva disgregazione del confronto sociale e l’indice di un
degrado crescente nelle regole di convivenza, regole alle quali dovrebbero ricondursi anche i
momenti di contrapposizione ideologica, inevitabili in una democrazia e in una
società plurale come quella italiana.
Per noi è in atto un preoccupante radicalismo che si mescola
alla frammentazione sociale. Sono tanti i comportamenti che attestano una
pericolosa caduta del senso civico e della capacità di coesistenza in una
società complessa. In Italia ne abbiamo esempi pressochè quotidiani: dal
dilagare dell’insulto via social network accompagnato alla scarsissima
propensione al confronto delle idee; alle invettive politiche; alla
demonizzazione di chi la pensa in modo diverso; all’assoluta mancanza di senso
delle istituzioni di cui molti amministratori pubblici danno prova, incitando
alla contravvenzione delle norme per una asserita “disobbedienza civile” di
fronte a temi politicamente sensibili (pensiamo alle dichiarazioni e ai
comportamenti di alcuni Sindaci sui temi dell’immigrazione clandestina); e si
potrebbe continuare a lungo. In sostanza, sembra che si stia formando una
società sempre meno improntata alla tolleranza, dove si smarrisce il senso dei
ruoli istituzionali e dove il livello di rabbia e di livore è inversamente
proporzionale al livello di comprensione meditata dei fenomeni e dei
comportamenti degli altri. Ci si comprende sempre di meno, e anche sui principi
di riferimento si è sempre meno d’accordo. Sembra che ciascuno pensi di detenere
il monopolio della verità, e in questo clima si snatura il senso regolatore
della legge, e si delegittimano continuamente le istituzioni e quanto di
“collettivo” esse rappresentano.
A prescindere da ogni valutazione sul fatto riferito e sui
comportamenti sopra ricordati, ci sembra che tutto ciò ci porti a ragionare,
ancora una volta, su ciò che sta alla base della tolleranza e di conseguenza sugli
elementi che possono “tenere insieme” società come le nostre. I sostenitori del
primato della legge riaffermano
continuamente che il collante delle società complesse è in fondo proprio
l’architettura di una democrazia “procedurale”, dove la legge si forma, e va di conseguenza
osservata, se obbedisce alle regole della democrazia rappresentativa. La
convivenza civile e le forme e i modi della sua evoluzione trovano perciò nelle
sole regole della democrazia parlamentare e, naturalmente con le tutele che
questa stessa democrazia stabilisce per le minoranze, nel principio di
maggioranza la loro spiegazione e giustificazione. Il problema è – e i fatti sono lì a
testimoniarlo – che questo principio si sta dimostrando sempre meno adeguato a
costruire un quadro di riferimento condiviso dalla generalità di gruppi e
cittadini. La legge da sola non tiene più insieme un corpo sociale, anzi in
taluni casi viene apertamente rifiutata. Ancora una volta, allora, non possiamo che
tornare a riflettere sul fatto che le regole e le procedure devono trovare alla
base un insieme di valori condivisi: valori che riguardano sia il modo di
confrontarsi sulla scena politica e sociale, sia una accettata gerarchia di
“principi primi” cui rapportarsi sul piano etico e nei rapporti interpersonali.
Non dobbiamo del resto dimenticarci che, storicamente, la democrazia
rappresentativa è stata elaborata in un contesto dove nessuno metteva in dubbio
i valori di riferimento su cui si fondava la convivenza civile e dove nessuno
pensava di adottare comportamenti che mettessero in dubbio il significato della
legge e delle istituzioni. Per questi motivi così, ancora una volta, bisogna
tornare a ragionare sul come fare per ricostruire una coscienza etica e una
coscienza civile, che le attuali derive comportamentali, rafforzate dalla
superficialità del confronto e del dibattito sui network, mettono sempre più in
discussione. Non è solo un problema di istruzione o di cultura, che pure sono
importantissime. Il tema non più eludibile è un confronto vero sull’importanza
di alcuni “valori fondanti” per tenere insieme società complesse.
E’ troppo pretendere almeno dai rappresentanti delle
istituzioni – lo è anche il municipio di Roma Capitale –comportamenti in grado
di “educare” i cittadini al rispetto delle idee diverse dalle proprie e alla
tolleranza? Non sappiamo se questi e altri interrogativi istituzionali si siano
presentati alla mente della Presidente del Municipio di Roma , e non sapremo
mai se il comportamento descritto sia soltanto frutto della sua ansia di
movimentismo “pro aborto”, oppure se rappresenti la spia di fortissimi deficit
culturali su cosa sia la democrazia rappresentativa.
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