venerdì 9 dicembre 2016

Le avventure della sovranità tra politica ed economia


Ci sembra interessante rileggere oggi, a distanza di ben diciotto anni, un libretto di Giuseppe Vacca (“Da un secolo all’altro. Mutamenti della politica del Novecento”,  Bompiani, 1998) , che contiene due saggi di sintesi sull’evoluzione della politica del Novecento e sui problemi con cui si è di volta in volta misurata. Uno di questi saggi, intitolato “Le avventure della sovranità”, ci dà lo spunto per alcune considerazioni. Per Vacca la globalizzazione -  che già allora si profilava in tutta la sua forza, dopo il venir meno del sistema di equilibrio bipolare delle due superpotenze mondiali, USA e URSS, simboleggiato dalla caduta del muro di Berlino - pone in crisi uno dei pilastri della “sovranità” così come per secoli è stata pensata, teorizzata e realizzata; vale a dire il pilastro del riferimento a un determinato territorio. La globalizzazione mette in crisi il potere fondato sulla territorialità, perché esige la creazione di “entità” a livello internazionale in grado di “governare” processi e relazioni economiche che scavalcano continuamente i confini degli Stati nazionali. Sulla base di questa considerazione, ormai diventata patrimonio comune delle analisi, vale la pena riflettere oggi sulle conclusioni della riflessione di Vacca: un sostanziale atto di fede nell’Euro come base per la creazione di una sovranità politica dell’Europa. Vale la pena trascrivere quanto scrive: atto di fede nell’Euro “non solo perché porrà le premesse anche delle politiche di sicurezza e delle politiche sociali favorendo la crescita di una società civile europea (lingua, cultura, diritto, partiti, sindacati, ecc.), ma soprattutto perché l’esistenza dell’Euro sarà la condizione minima, per gli europei, per negoziare un nuovo sistema monetario internazionale... Nel contesto  di una economia  globale non dovrebbe sorprendere che, invertendo il paradigma originario della modernità, la costruzione della sovranità  proceda dall’economia alla politica e non viceversa... Perciò la sovranità potrà rinascere solo nella forma della sovranazionalità, nel quadro di una cooperazione internazionale basata sulla interdipendenza e la reciprocità”. Spetterebbe a questa sovranazionalità, per Vacca, realizzare un nuovo generalizzato “Stato sociale”, secondo i migliori principi del riformismo socialista; un riformismo pensato però intorno allo slogan “dal Welfare delle garanzie al Welfare delle opportunità”, e quindi con la piena accettazione e applicazione di principi liberali e, in sostanza, dei meccanismi di mercato. Questa posizione, illustrata allora da uno degli intellettuali più acuti dell’area della sinistra, quale Vacca, a distanza di diciotto anni evidenzia il bagaglio di grandi ideali e di profonde illusioni che nutrì la costruzione della “nuova Europa”, quella che prese avvio dal trattato di Maastricht. Allora, sembrava che si aprisse effettivamente una nuova era, che coincideva anche con la presenza ai vertici del potere negli Stati europei, quasi ovunque, di coalizioni di  “centro sinistra” o comunque di ispirazione socialista. Allora sembrava giusto, dopo il fallimento del socialismo reale sovietico, rivedere la spinta ideale progressista alla luce dell’economia di mercato e pensare a un’entità sovranazionale - l’Europa politica – che avrebbe dovuto in definitiva “redistribuire” le risorse prodotte in un’ottica di maggiore  riequilibrio, per superare le distorsioni della globalizzazione, fatto in sé da accettare e “governare”. A  distanza di diciotto anni si può dire invece che la grande avventura storica della sovranità non ha ancora superato i confini nazionali. L’unica entità sovranazionale veramente tale, per usare la terminologia di Vacca, è l’insieme di istituzioni finanziarie che “governano” le monete, e l’unica reale “politica economica” è quella monetaria, che prevale di fronte a istituzioni politiche europee prive di reale autorità: le decisioni politiche restano infatti ancorate alle esigenze delle comunità territoriali rappresentate dagli Stati. Se l’economia doveva trascinare la politica verso un percorso di “modernità” sovranazionale, è accaduto invece che la politica non è stata disposta a seguire questo percorso. I motivi sono tanti, ma ci sembra che il più evidente sia che la politica si legittima con il consenso, che ricerca il consenso e  che questo consenso non può che essere collegato a precise comunità di riferimento, che trovano in concreto in un ben preciso territorio il loro riferimento di vita e di lavoro.  E oggi questo consenso, che si traduce nel voto, è più difficile da “catturare” e mantenere, perché il cemento delle grandi ideologie del Novecento è venuto meno e prevalgono sollecitazioni di vario genere (la prima forse è la voglia di sicurezza contro il terrorismo e la criminalità), unite a fortissime preoccupazioni per la convivenza  con etnie diverse, frutto delle ondate migratorie verso l’Europa, e per uno sviluppo stentato, che dà risposte solo parziali alla domanda di lavoro, aumentando il senso di precarietà e l’incertezza verso il futuro. Inoltre, a distanza di diciotto anni, appare più chiaro il motivo culturale per cui il mondo della sinistra ha accettato una globalizzazione che è diventata ben presto finanziarizzazione dell’economia, e come è oggi culturalmente difficile – dati questi presupposti culturali – elaborare strategie diverse. Ci sembra che la constatazione di fondo sia che la storia non è un percorso lineare né progressivo, che i problemi sovente si ripresentano, che la felicità degli europei non si persegue con astratte costruzioni elaborate “in alto”, poiché l’obbiettivo della sovranazionalità deve fare i conti con la gente che vota e che riversa sulla politica richieste che troppo sbrigativamente più di qualcuno etichetta come populismo. E ci sembra che il vero dato di fatto sia che oggi esiste una specie di “schizofrenia” istituzionale, tra una economia ormai globale e una politica che rimane “statuale” (e forse non potrebbe essere altrimenti) coerentemente con il principio della rappresentanza, che continua a trovare la sua legittimazione entro i confini territoriali degli Stati. Le conseguenze di questa frattura sono evidenti: la sovranità sembra appartenere alla sola economia, mentre la politica sembra sostanzialmente impotente a ristabilire il suo “primato”.
Da questa schizofrenia come si esce? Ci sembra che la “politica” dovrebbe riappropriarsi dell’economia, nel senso che dovrebbe spettare a classi dirigenti nazionali individuare modalità e sedi per iniziare a costruire un percorso comune che non dia la sensazione agli elettori di essere “espropriati” di decisioni importanti, frutto degli accordi di una ristretta classe di notabili e di finanzieri/economisti. In questa prospettiva, anche se la strada è la più difficile, ci sembra che una nuova Europa sovranazionale non possa che  scaturire dalle democrazie nazionali, e non viceversa. E, sempre in questa prospettiva, ci sembra poco corretto che -come accade già oggi – determinati orientamenti sociali e culturali siano “imposti” di fatto da decisioni comunitarie che sovente generalizzano approcci culturali che invece sono condivisi dalle coscienze sociali solo di alcuni Stati e non di altri, oppure che per direttiva europea si tenda alla standardizzazione economica di quelle diversità che fanno invece la ricchezza dell’economia e delle produzioni europee. In altre parole, c’è bisogno di una cultura che non neghi, ma faccia sintesi e, al tempo stesso, valorizzi in positivo le diversità. Il problema vero, e ad oggi irrisolto, sta proprio lì: nella presenza di una politica dotata di questa “cultura”.

martedì 22 novembre 2016

Democrazia senza rappresentanza?


La politica è comunemente definita come “l’arte del governare”. Per cercare di capire quali direzioni potrebbe prendere quest’arte in tempi complicati e difficili come quelli odierni, va assolutamente considerato un tema, per noi cruciale. Ci può aiutare a inquadrarlo la lettura dei commenti di alcuni esponenti politici italiani del partito di cui è segretario l’attuale premier,  dopo la recente vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane: commenti dove si lamentava in sostanza il fatto che decisioni importanti per la politica debbano essere lasciate al voto della grande massa dei cittadini, evidentemente giudicati incapaci di esprimere con il voto un giudizio meditato e sensibili solo a discorsi, come si usa dire, “di pancia”.  A parte il fatto che ci sarebbe da chiedersi dove sta muovendosi culturalmente il mondo della “sinistra” dopo  che per almeno due secoli si è battuta proprio per dar voce alle masse sulla scena politica, queste esternazioni non  sono infatti soltanto indicative quanto meno di un forte scollegamento (non vogliamo parlare di incomprensione) tra chi rappresenta e chi è  rappresentato – perché non si è stati in grado di leggere gli umori veri dell’elettorato americano – ma soprattutto rivelano l’emersione di una concezione della democrazia su cui vale la pena riflettere.  La democrazia , così com’è nata in Europa, è stata sempre costruita in un rapporto stretto con la rappresentanza: vale a dire sul principio che tutti i cittadini sono chiamati periodicamente ad esprimere il loro giudizio sul governo tramite il voto e a governare tramite eletti, perché la cosiddetta “democrazia diretta” - all’università si studiava così – non può reggere quando la comunità dei governati è complessa e di ampie dimensioni, e sul principio che questi eletti devono comunque essere appunto “rappresentativi” di tutte le componenti di una società.  Il rapporto strettissimo tra democrazia e rappresentanza ha accompagnato la nostra storia - italiana, europea e americana – e ha utilizzato svariati sistemi elettorali per realizzarsi: proporzionale, maggioritario, collegi uninominali, circoscrizioni elettorali, preferenze e così via: le leggi elettorali infatti determinano le modalità della rappresentanza e sono pensate in relazione alle peculiarità di ciascun Paese per assicurare governabilità e al tempo stesso rappresentatività a tutte le componenti sociali e territoriali. Questa impostazione ha funzionato per lunghissimo tempo, e nel Novecento ha trovato nei grandi partiti politici di massa dei soggetti in grado di esercitare una forte “mediazione” nell’esprimere le varie tendenze e propensioni (anche culturali, ideologiche, religiose) degli elettori e nell’organizzare e indirizzare in modo coerente con le loro aspettative i comportamenti degli eletti. Per lunghissimo tempo le strutture e le istituzioni hanno saputo assicurare rappresentanza e, insieme, governabilità. Oggi il quadro è cambiato: i grandi partiti di massa – entità impersonali tenute insieme da una comune cultura di relazioni politiche e ideologiche – sono diventati soprattutto dei grandi comitati a servizio dei leader e si sono impoveriti molto sul piano culturale; la società si è frammentata sempre di più e la base della convivenza sociale, fatta di valori comuni di riferimento, si è fatta sempre più esile e debole. La società sta caratterizzandosi sempre di più come una somma di tanti individui, e sempre meno come una comunità che si riconosce intorno a valori e principi comuni: in definitiva una comunità a identità sempre più debole.  Su questa società, fatta di individui sostanzialmente “isolati” ma al tempo stesso attentissimi a salvaguardare la propria dimensione personale, si sono calati problemi epocali: le diseguaglianze crescenti, la ricerca della sicurezza materiale e personale, esodi migratori di proporzioni bibliche, solo per ricordarne alcuni. Problemi che vanno ad aggiungersi, e spesso drammatizzano, i problemi di benessere, occupazione, salvaguardia dello Stato sociale su cui da sempre si è misurata la politica. Di fronte a tutto questo ci sembra che una certa classe politica spesso “improvvisata” nella sua consapevolezza dei problemi e spesso fondata su slogan e luoghi comuni corra il pericolo di cedere alla tentazione che la governabilità possa essere ottenuta attraverso operazioni di ingegneria legislativa tendenti a semplificare in modo rilevante la “domanda politica”, nella convinzione che, per questa via, sia possibile recuperare capacità di decisione.  Questa tendenza a concepire soluzioni del genere ci sembra spinta anche dal “contesto” in cui le classi dirigenti degli Stati a economia avanzata si trovano ad operare: un contesto di grande globalizzazione, dove acquistano sempre maggior peso decisionale organismi tecnici - siano essi la World Trade  Organization , la Banca Mondiale o la Banca Centrale Europea – che dovrebbero avere solo funzioni di governo su grandezze economiche o monetarie, ma che nei fatti sono oggi pressochè le uniche a imporre regole che vincolano, a volte in modo pesante, la discrezionalità degli Stati nella progettazione e realizzazione delle proprie politiche economiche. Le classi politiche nazionali si trovano perciò in un certo senso “spiazzate”: da un lato sono state elette da comunità legate a precisi ambiti territoriali e statali, dall’altro devono sovente uniformarsi a regole che provengono dall’esterno, da organismi di tecnici che si ritrovano in mano il “governo” dell’economia europea o mondiale senza alcuna legittimazione o investitura elettorale. E oggi, in un contesto “globalizzato”,  governare l’economia significa di fatto governare una gran parte delle questioni politiche, data la pervasività dei fatti economici sulle situazioni dei singoli Stati.  Non vorremmo che per superare questo spiazzamento alcuni esponenti politici siano tentati di ipotizzare soluzioni che riducano drasticamente il tasso di rappresentanza a favore della governabilità. In società frammentate come le nostre, prive di consenso anche su concetti fondamentali (pensiamo che in Italia, ad esempio, non si è più d’accordo nemmeno sul concetto di famiglia previsto nella Costituzione!) una riduzione della rappresentanza farà inevitabilmente crescere, anziché ridurli, senso di frustrazione e conflitti, e rafforzerebbe l’idea, già oggi diffusa, che la politica a livello nazionale e internazionale sia un affare esclusivo di una oligarchia autoreferenziale. Per questo motivo andrebbero sempre analizzate bene tutte le proposte che, attraverso l’invocazione del principio (in sé giusto, nell’ottica del recupero di efficienza ed efficacia decisionale) della “semplificazione” potrebbero nei fatti, anche al di là delle intenzioni di chi le propone, determinare una mutilazione della rappresentanza di territori, categorie, gruppi, orientamenti culturali e sociali. La strada giusta ci sembra un’altra, certamente più difficile e faticosa, ma probabilmente l’unica idonea a ricucire il rapporto oggi abbastanza strappato tra eletti ed elettori: governare senza paura la complessità dei fatti, ricostruire comunità fondate su principi identitari condivisi recuperando una “coscienza di territorio” come espressione della rappresentanza politica, non rifiutare di misurarsi o disprezzare il dissenso, adottare comportamenti coerenti e trasparenti, pretendere chiarezza nei rapporti internazionali per costruire strutture e regole che risultino meno oligarchiche e opache  di quanto appare oggi. Non ci sono soluzioni facili per problemi complessi: l’importante è averne coscienza ed esprimere una “classe politica” di eletti che sia anche culturalmente attrezzata per affrontarli, evitando l’illusione offerta da scorciatoie istituzionali seducenti ma pericolose per la tenuta complessiva della società.

sabato 5 novembre 2016

Brexit: note su una sentenza


La recentissima decisione dell’Alta Corte di Londra sulla necessità di sottoporre al vaglio del Parlamento inglese il risultato del referendum popolare, che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, offre lo spunto per alcune riflessioni.  Si potrebbe ragionare sulle criticità del rapporto tra politica e giustizia, come hanno fatto alcuni commentatori, o sul rapporto tra democrazia diretta  e democrazia indiretta, vale a dire quella democrazia che esprime decisioni per mezzo di assemblee elettive, come appunto i Parlamenti, e sui limiti della prima nei confronti della seconda.  Al di là del fatto specifico, la vera riflessione riguarda però il rapporto che si è instaurato oggi a livello europeo (ma non solo) tra politica ed economia, dove per economia va intesa soprattutto la finanza. Questo rapporto, a guardar bene, si risolve essenzialmente in una profonda contraddizione, che alla lunga può risultare dirompente.  Infatti il vero problema sta nel fatto, certamente incontrovertibile, che il processo di accelerazione  dell’integrazione europea è avvenuto privilegiando in modo pressochè esclusivo la creazione di un’architettura fondata sulla moneta unica, e quindi sul ruolo delle Banche Centrali e della Banca Centrale Europea per governare la stabilità monetaria e rendere compatibili con una moneta unica le finanze pubbliche degli Stati membri, che devono uniformarsi all’osservanza di parametri ben precisi nei rapporti tra i loro deficit di bilancio e i loro Prodotti Interni Lordi, il famoso PIL che rappresenta la misura della ricchezza di un Paese.  Questo processo di integrazione monetaria, che ha comportato l’attribuzione di un ruolo di guida  delle grandezze monetarie alla BCE, rendendo le Banche Centrali dei singoli Paesi prive di sostanziale sovranità sul governo della moneta come invece accadeva nel passato, ha accentrato le decisioni di politica finanziaria e monetaria a livello europeo, ma ha lasciato ai livelli nazionali la gran parte delle decisioni politiche. Con un solo risultato:  la politica, a livello dei singoli Stati, fa molta fatica ad esercitare il suo mestiere, che è quello di operare per assicurare occupazione e sviluppo, da sempre gli obiettivi fondamentali di qualsiasi politica economica. Come si fa a creare condizioni di sviluppo, quando  a livello europeo i trattati obbligano a rispettare determinati vincoli di bilancio, a non utilizzare oltre determinate soglie la spesa pubblica come volano di crescita, a uniformarsi a regole che risentono dell’influenza (inevitabile) degli Stati più forti all’interno dell’Unione?  La situazione è un po’ schizofrenica e in un certo senso paradossale, perché la politica nazionale si trova abbastanza impotente di fronte a una logica finanziaria e monetaria che si dimostra invece “pervasiva” delle istituzioni e dei processi di decisione nazionali. E per di più ci sarebbe da discutere molto sulla reale volontà della politica dei singoli Stati  ad espropriarsi di compiti e competenze fondamentali: è come chiedere, di fatto, ad un uomo politico di annullare il suo futuro e suicidarsi politicamente. Da questa divaricazione di poteri e di finalità nasce buona parte del disagio attuale: le opinioni pubbliche nazionali, specialmente quelle di Paesi dove le finanze pubbliche non consentono grandi azioni di sviluppo - a parte la Grecia, l’Italia è tra questi – a causa della massa di debito pubblico accumulata negli anni, si sentono prigioniere di logiche governate da tecnici che non hanno ricevuto alcuna investitura politica, che non rispondono a nessun Parlamento e che vengono percepiti come lontani, insensibili alle esigenze di benessere e di sviluppo avanzate dalle comunità degli Stati membri.  Da qui, a pensare ad un governo di tecnocrati oligarchi il passo è breve. Ed è da qui che nasce la diffidenza verso istituzioni comunitarie percepite come club ristretti ed esclusivi; da qui nasce la percezione dell’Unione Europea come un’entità astratta e talvolta ostile, che molti, così com’è ora, non nascondono di voler rifiutare. Dietro il referendum inglese vi è un po’ tutto questo, accentuato da un orgoglio british che nella storia ha sempre giocato un ruolo importante . E dietro la sentenza dell’Alta Corte vi è di fatto lo scontro tra due concezioni dell’Europa come dovrebbe essere: o un agglomerato di interessi finanziari, che non ammette ostacoli ( non a caso la promotrice del ricorso all’Alta Corte è una manager esponente di  interessi “pro Europa”), o un agglomerato di Stati sovrani che decidono di mantenere autonomia di scelta sul proprio futuro, sulla base dell’assunto che “il potere appartiene al popolo”, che lo esercita secondo le regole e i limiti previsti dalle rispettive Costituzioni. Sappiamo tutti il perché dell’accelerazione all’integrazione europea su basi monetarie. Si pensava che la politica, come la famosa intendenza di Napoleone, “avrebbe seguito”. In realtà la lontananza dell’Europa della finanza dall’economia reale e i disagi sociali nei vari Paesi costringono l’intendenza a non seguire l’avanguardia. In questa prospettiva, la sentenza dell’Alta Corte di Londra non risolve alcun problema, anzi potrebbe accentuare processi di disgregazione ad ogni livello.
L’Europa è importante, ma forse sarebbe il caso di ripensarla sul serio, a costo anche di rivedere quanto finora è stato realizzato.

domenica 30 ottobre 2016

Da Basilea III a “Basilea IV”: troveremo ancora le banche?


A livello europeo si parla di una imminente revisione degli standard dell’intesa denominata “Basilea III”, per  realizzare una nuova intesa denominata “Basilea IV”. Già con l’intesa oggi in vigore i requisiti patrimoniali, richiesti alle banche italiane ed europee per poter operare senza incorrere nei rilievi e nelle imposizioni della Banca Centrale Europea, sono aumentati e hanno inevitabilmente comportato restrizioni creditizie nei confronti della  clientela, persone e imprese.
La prudenza in materia finanziaria per gli istituti di credito è un criterio importante, ma quando si fondano direttive generali su meccanismi di estrema cautela finanziaria sulla base della preoccupazione – di per sé giusta – di disporre di banche patrimonialmente “solide” e quando per realizzare questo obiettivo si esaspera la ricerca della patrimonializzazione gli effetti non possono che essere, come direbbero gli economisti, “prociclici”. Si amplificano cioè le tendenze in atto in un determinato momento nel sistema economico: se la fase del ciclo economico è in espansione il credito bancario è più disponibile, anche se le imprese generano utili e forse ne hanno meno bisogno; se la fase invece presenta tratti di stagnazione o recessione (e da noi questa fase dura ormai da tanto tempo) il ricorso al credito bancario per sostenere la continuità dell’impresa risulta meno agevole. Le banche si fidano meno e temono di incrementare la massa dei crediti inesigibili pregiudicando il rispetto dei requisiti patrimoniali richiesti dalle autorità bancarie nazionali e internazionali. Purtroppo questo meccanismo concorre così a mantenere un sistema economico nella stagnazione, che ha tante cause, ma, non ultima, proprio questa.
Con “Basilea IV”, almeno riferendosi a quanto previsto attualmente, i metodi interni per la valutazione del rischio di credito - che tutte le banche utilizzano – potrebbero essere aboliti o fortemente ridimensionati a favore dell’applicazione di un metodo standardizzato che obbligherebbe le banche a ricorrere ad aumenti di capitale rilevanti, per rispettare i  requisiti patrimoniali che il nuovo metodo imporrebbe.  E’ chiaro che così i finanziamenti alle imprese – la cosiddetta “economia reale” – si contrarrebbero ancora di più.
Di quanto capitale aggiuntivo ci sarebbe bisogno? Secondo un’analisi dell’Associazione Bancaria Italiana condotta su 18  realtà  italiane sulla base dei dati 2013-2015, più del 25% delle strutture bancarie di minori dimensioni con il calcolo standardizzato registrerebbero aumenti dei requisiti patrimoniali minimi consentiti. Per il campione nel suo complesso l’aumento medio sarebbe del 46%, e un quarto registrerebbe un aumento pari o maggiore al 72% rispetto ai requisiti rispettati attualmente.
C’è da chiedersi se la cautela finanziaria – frutto di una reazione a livello internazionale a certa finanza “disinvolta” praticata in passato da molte banche – non stia progressivamente diventando una camicia di forza per le capacità operative delle banche. E c’è da chiedersi come se la caveranno le banche più piccole, che spesso sono anche quelle che in Italia (ma non solo, se pensiamo alle banche locali tedesche) fanno fronte alle esigenze di credito dei territori dove sono insediate e dove trovano la maggior parte dei clienti. E’ evidente che si dovrà infatti ricorrere a fusioni e accorpamenti tra banche, in misura molto maggiore di quanto già accade oggi, rendendo sempre più esile il legame tra banca e territorio e spersonalizzando sempre di più il rapporto tra chi eroga il credito e chi lo ottiene.
Non sappiamo se le trattative  in corso produrranno modifiche all’impianto pensato finora, e speriamo in un ripensamento.  In tutto questo leggiamo comunque un ulteriore elemento di scollamento della finanza dall’economia reale, per noi lo strumento principale per creare sviluppo. Ci sembra che la finanza  stia vivendo dinamiche sempre più autoreferenziali, che la impegnano in una corsa solitaria, quando invece risulta sempre più evidente la necessità di ricomporre un quadro logico delle relazioni economiche, ristabilendo legami solidi (ma certamente trasparenti e compatibili con una corretta gestione) tra finanza e impresa.