La
politica è comunemente definita come “l’arte del governare”. Per cercare di
capire quali direzioni potrebbe prendere quest’arte in tempi complicati e
difficili come quelli odierni, va assolutamente considerato un tema, per noi
cruciale. Ci può aiutare a inquadrarlo la lettura dei commenti di alcuni
esponenti politici italiani del partito di cui è segretario l’attuale premier, dopo la recente vittoria di Donald Trump nelle
elezioni presidenziali americane: commenti dove si lamentava in sostanza il
fatto che decisioni importanti per la politica debbano essere lasciate al voto
della grande massa dei cittadini, evidentemente giudicati incapaci di esprimere
con il voto un giudizio meditato e sensibili solo a discorsi, come si usa dire,
“di pancia”. A parte il fatto che ci
sarebbe da chiedersi dove sta muovendosi culturalmente il mondo della
“sinistra” dopo che per almeno due
secoli si è battuta proprio per dar voce alle masse sulla scena politica,
queste esternazioni non sono infatti
soltanto indicative quanto meno di un forte scollegamento (non vogliamo parlare
di incomprensione) tra chi rappresenta e chi è
rappresentato – perché non si è stati in grado di leggere gli umori veri
dell’elettorato americano – ma soprattutto rivelano l’emersione di una
concezione della democrazia su cui vale la pena riflettere. La democrazia , così com’è nata in Europa, è
stata sempre costruita in un rapporto stretto con la rappresentanza: vale a
dire sul principio che tutti i cittadini sono chiamati periodicamente ad
esprimere il loro giudizio sul governo tramite il voto e a governare tramite
eletti, perché la cosiddetta “democrazia diretta” - all’università si studiava
così – non può reggere quando la comunità dei governati è complessa e di ampie
dimensioni, e sul principio che questi eletti devono comunque essere appunto
“rappresentativi” di tutte le componenti di una società. Il rapporto strettissimo tra democrazia e
rappresentanza ha accompagnato la nostra storia - italiana, europea e americana
– e ha utilizzato svariati sistemi elettorali per realizzarsi: proporzionale,
maggioritario, collegi uninominali, circoscrizioni elettorali, preferenze e così
via: le leggi elettorali infatti determinano le modalità della rappresentanza e
sono pensate in relazione alle peculiarità di ciascun Paese per assicurare
governabilità e al tempo stesso rappresentatività a tutte le componenti sociali
e territoriali. Questa impostazione ha funzionato per lunghissimo tempo, e nel
Novecento ha trovato nei grandi partiti politici di massa dei soggetti in grado
di esercitare una forte “mediazione” nell’esprimere le varie tendenze e
propensioni (anche culturali, ideologiche, religiose) degli elettori e nell’organizzare
e indirizzare in modo coerente con le loro aspettative i comportamenti degli
eletti. Per lunghissimo tempo le strutture e le istituzioni hanno saputo
assicurare rappresentanza e, insieme, governabilità. Oggi il quadro è cambiato:
i grandi partiti di massa – entità impersonali tenute insieme da una comune cultura
di relazioni politiche e ideologiche – sono diventati soprattutto dei grandi
comitati a servizio dei leader e si sono impoveriti molto sul piano culturale;
la società si è frammentata sempre di più e la base della convivenza sociale,
fatta di valori comuni di riferimento, si è fatta sempre più esile e debole. La
società sta caratterizzandosi sempre di più come una somma di tanti individui,
e sempre meno come una comunità che si riconosce intorno a valori e principi
comuni: in definitiva una comunità a identità sempre più debole. Su questa società, fatta di individui
sostanzialmente “isolati” ma al tempo stesso attentissimi a salvaguardare la
propria dimensione personale, si sono calati problemi epocali: le
diseguaglianze crescenti, la ricerca della sicurezza materiale e personale,
esodi migratori di proporzioni bibliche, solo per ricordarne alcuni. Problemi
che vanno ad aggiungersi, e spesso drammatizzano, i problemi di benessere,
occupazione, salvaguardia dello Stato sociale su cui da sempre si è misurata la
politica. Di fronte a tutto questo ci sembra che una certa classe politica
spesso “improvvisata” nella sua consapevolezza dei problemi e spesso fondata su
slogan e luoghi comuni corra il pericolo di cedere alla tentazione che la
governabilità possa essere ottenuta attraverso operazioni di ingegneria
legislativa tendenti a semplificare in modo rilevante la “domanda politica”,
nella convinzione che, per questa via, sia possibile recuperare capacità di
decisione. Questa tendenza a concepire
soluzioni del genere ci sembra spinta anche dal “contesto” in cui le classi
dirigenti degli Stati a economia avanzata si trovano ad operare: un contesto di
grande globalizzazione, dove acquistano sempre maggior peso decisionale
organismi tecnici - siano essi la World Trade
Organization , la Banca Mondiale o la Banca Centrale Europea – che dovrebbero
avere solo funzioni di governo su grandezze economiche o monetarie, ma che nei
fatti sono oggi pressochè le uniche a imporre regole che vincolano, a volte in
modo pesante, la discrezionalità degli Stati nella progettazione e
realizzazione delle proprie politiche economiche. Le classi politiche nazionali
si trovano perciò in un certo senso “spiazzate”: da un lato sono state elette
da comunità legate a precisi ambiti territoriali e statali, dall’altro devono
sovente uniformarsi a regole che provengono dall’esterno, da organismi di
tecnici che si ritrovano in mano il “governo” dell’economia europea o mondiale
senza alcuna legittimazione o investitura elettorale. E oggi, in un contesto
“globalizzato”, governare l’economia
significa di fatto governare una gran parte delle questioni politiche, data la
pervasività dei fatti economici sulle situazioni dei singoli Stati. Non vorremmo che per superare questo
spiazzamento alcuni esponenti politici siano tentati di ipotizzare soluzioni
che riducano drasticamente il tasso di rappresentanza a favore della
governabilità. In società frammentate come le nostre, prive di consenso anche
su concetti fondamentali (pensiamo che in Italia, ad esempio, non si è più d’accordo
nemmeno sul concetto di famiglia previsto nella Costituzione!) una riduzione
della rappresentanza farà inevitabilmente crescere, anziché ridurli, senso di
frustrazione e conflitti, e rafforzerebbe l’idea, già oggi diffusa, che la
politica a livello nazionale e internazionale sia un affare esclusivo di una
oligarchia autoreferenziale. Per questo motivo andrebbero sempre analizzate
bene tutte le proposte che, attraverso l’invocazione del principio (in sé
giusto, nell’ottica del recupero di efficienza ed efficacia decisionale) della
“semplificazione” potrebbero nei fatti, anche al di là delle intenzioni di chi
le propone, determinare una mutilazione della rappresentanza di territori,
categorie, gruppi, orientamenti culturali e sociali. La strada giusta ci sembra
un’altra, certamente più difficile e faticosa, ma probabilmente l’unica idonea
a ricucire il rapporto oggi abbastanza strappato tra eletti ed elettori:
governare senza paura la complessità dei fatti, ricostruire comunità fondate su
principi identitari condivisi recuperando una “coscienza di territorio” come
espressione della rappresentanza politica, non rifiutare di misurarsi o
disprezzare il dissenso, adottare comportamenti coerenti e trasparenti,
pretendere chiarezza nei rapporti internazionali per costruire strutture e
regole che risultino meno oligarchiche e opache
di quanto appare oggi. Non ci sono soluzioni facili per problemi
complessi: l’importante è averne coscienza ed esprimere una “classe politica”
di eletti che sia anche culturalmente attrezzata per affrontarli, evitando
l’illusione offerta da scorciatoie istituzionali seducenti ma pericolose per la
tenuta complessiva della società.
martedì 22 novembre 2016
sabato 5 novembre 2016
Brexit: note su una sentenza
La recentissima decisione dell’Alta Corte di Londra sulla
necessità di sottoporre al vaglio del Parlamento inglese il risultato del
referendum popolare, che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione
Europea, offre lo spunto per alcune riflessioni. Si potrebbe ragionare sulle criticità del
rapporto tra politica e giustizia, come hanno fatto alcuni commentatori, o sul
rapporto tra democrazia diretta e
democrazia indiretta, vale a dire quella democrazia che esprime decisioni per
mezzo di assemblee elettive, come appunto i Parlamenti, e sui limiti della
prima nei confronti della seconda. Al di
là del fatto specifico, la vera riflessione riguarda però il rapporto che si è
instaurato oggi a livello europeo (ma non solo) tra politica ed economia, dove
per economia va intesa soprattutto la finanza. Questo rapporto, a guardar bene,
si risolve essenzialmente in una profonda contraddizione, che alla lunga può
risultare dirompente. Infatti il vero
problema sta nel fatto, certamente incontrovertibile, che il processo di
accelerazione dell’integrazione europea
è avvenuto privilegiando in modo pressochè esclusivo la creazione di
un’architettura fondata sulla moneta unica, e quindi sul ruolo delle Banche
Centrali e della Banca Centrale Europea per governare la stabilità monetaria e
rendere compatibili con una moneta unica le finanze pubbliche degli Stati
membri, che devono uniformarsi all’osservanza di parametri ben precisi nei
rapporti tra i loro deficit di bilancio e i loro Prodotti Interni Lordi, il
famoso PIL che rappresenta la misura della ricchezza di un Paese. Questo processo di integrazione monetaria,
che ha comportato l’attribuzione di un ruolo di guida delle grandezze monetarie alla BCE, rendendo
le Banche Centrali dei singoli Paesi prive di sostanziale sovranità sul governo
della moneta come invece accadeva nel passato, ha accentrato le decisioni di
politica finanziaria e monetaria a livello europeo, ma ha lasciato ai livelli
nazionali la gran parte delle decisioni politiche. Con un solo risultato: la politica, a livello dei singoli Stati, fa
molta fatica ad esercitare il suo mestiere, che è quello di operare per
assicurare occupazione e sviluppo, da sempre gli obiettivi fondamentali di
qualsiasi politica economica. Come si fa a creare condizioni di sviluppo,
quando a livello europeo i trattati
obbligano a rispettare determinati vincoli di bilancio, a non utilizzare oltre
determinate soglie la spesa pubblica come volano di crescita, a uniformarsi a
regole che risentono dell’influenza (inevitabile) degli Stati più forti
all’interno dell’Unione? La situazione è
un po’ schizofrenica e in un certo senso paradossale, perché la politica
nazionale si trova abbastanza impotente di fronte a una logica finanziaria e
monetaria che si dimostra invece “pervasiva” delle istituzioni e dei processi
di decisione nazionali. E per di più ci sarebbe da discutere molto sulla reale
volontà della politica dei singoli Stati
ad espropriarsi di compiti e competenze fondamentali: è come chiedere,
di fatto, ad un uomo politico di annullare il suo futuro e suicidarsi
politicamente. Da questa divaricazione di poteri e di finalità nasce buona
parte del disagio attuale: le opinioni pubbliche nazionali, specialmente quelle
di Paesi dove le finanze pubbliche non consentono grandi azioni di sviluppo - a
parte la Grecia, l’Italia è tra questi – a causa della massa di debito pubblico
accumulata negli anni, si sentono prigioniere di logiche governate da tecnici
che non hanno ricevuto alcuna investitura politica, che non rispondono a nessun
Parlamento e che vengono percepiti come lontani, insensibili alle esigenze di
benessere e di sviluppo avanzate dalle comunità degli Stati membri. Da qui, a pensare ad un governo di tecnocrati
oligarchi il passo è breve. Ed è da qui che nasce la diffidenza verso
istituzioni comunitarie percepite come club ristretti ed esclusivi; da qui
nasce la percezione dell’Unione Europea come un’entità astratta e talvolta
ostile, che molti, così com’è ora, non nascondono di voler rifiutare. Dietro il
referendum inglese vi è un po’ tutto questo, accentuato da un orgoglio british
che nella storia ha sempre giocato un ruolo importante . E dietro la sentenza
dell’Alta Corte vi è di fatto lo scontro tra due concezioni dell’Europa come dovrebbe
essere: o un agglomerato di interessi finanziari, che non ammette ostacoli (
non a caso la promotrice del ricorso all’Alta Corte è una manager esponente
di interessi “pro Europa”), o un
agglomerato di Stati sovrani che decidono di mantenere autonomia di scelta sul
proprio futuro, sulla base dell’assunto che “il potere appartiene al popolo”,
che lo esercita secondo le regole e i limiti previsti dalle rispettive
Costituzioni. Sappiamo tutti il perché dell’accelerazione all’integrazione
europea su basi monetarie. Si pensava che la politica, come la famosa
intendenza di Napoleone, “avrebbe seguito”. In realtà la lontananza dell’Europa
della finanza dall’economia reale e i disagi sociali nei vari Paesi costringono
l’intendenza a non seguire l’avanguardia. In questa prospettiva, la sentenza
dell’Alta Corte di Londra non risolve alcun problema, anzi potrebbe accentuare
processi di disgregazione ad ogni livello.
L’Europa è importante, ma forse sarebbe il caso di
ripensarla sul serio, a costo anche di rivedere quanto finora è stato
realizzato.
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