lunedì 17 settembre 2018

Pluralismo di valori e pluralismo di morali. Quali "legature" per la tenuta della società?


Nel corso dell’interminabile opera di riordino dei tanti volumi della nostra biblioteca, è riaffiorata la raccolta, edita dal Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino, dei testi delle conferenze organizzate in omaggio a Fulvio Guerrini, promotore del Centro stesso, che è uno dei più interessanti e rilevanti “pensatoi” di analisi, prospettive e valori autenticamente liberali in Italia.
Il volume contiene i testi delle Conferenze effettuate nel periodo 1994-2005. Fa riflettere, per i ragionamenti svolti e la prospettiva di analisi, la lettura della conferenza del 2000 tenuta da Tristram Engelhardt Jr. sul tema “Al di là della giustizia e dell’equità: ripensare i sistemi sanitari”.  La tesi di Engelhardt  è  - citiamo testualmente - che “la diffusa idea di una impostazione nazionale, moralmente uniforme, della politica sanitaria non possa essere giustificata, in considerazione 1) dei limiti della nostra razionalità morale discorsiva 2) dalla pluralità delle nostre morali laiche, e 3) dalle conseguenti difficoltà ad accettare il fatto che un’autorità mondana possa imporre un’unica moralità valida per tutti. Nel momento in cui entriamo nel nuovo millennio siamo divisi dalle nostre opinioni sulla giustizia, sull’equità e sull’uguaglianza, esattamente come siamo divisi dalle nostre convinzioni religiose. Esistono tante correnti di pensiero sulla giustizia, l’equità e l’uguaglianza quante sono le maggiori religioni”. La conseguenza di questa constatazione è, per Engelhardt, che “data la nostra incapacità di scegliere – su basi di principio e con argomenti razionali evidenti – tra le diverse idee di giustizia, equità ed uguaglianza, è necessario rinunciare all’ipotesi di imporre una comune visione di un’assistenza sanitaria giusta, equa o correttamente uniforme”. Perciò, in una società laica e pluralista, caratterizzata dall’autorità morale limitata di una democrazia limitata, “ siamo costretti  ad accettare tacitamente l’esistenza di atteggiamenti pacifici e moralmente diversi in merito all’allocazione delle risorse destinate all’assistenza sanitaria”.
Date queste premesse, Engelhardt delinea un modello di sanità logicamente coerente con gli assunti ricordati: un modello capace di tenere in considerazione la nostra diversità morale e la limitata autorità morale, dando perciò spazio ad una sorta di “competizione morale” all’interno della società.  Questo modello si dovrebbe fondare su “vouchers sanitari” (buoni-salute) forniti ai cittadini, da utilizzarsi da questi per acquistare assistenza sanitaria scegliendo tra una moltitudine di istituzioni, egualmente tutte riconosciute dallo Stato, istituzioni che diano la garanzia di forti convinzioni morali in merito all’espansione delle potenzialità umane e a proposito della corretta risposta da darsi di fronte alla finitezza umana. I cittadini possono perciò impiegare i vouchers per ottenere accesso al tipo di assistenza sanitaria più coerente con i loro valori e le loro aspettative morali. La società immaginata e delineata da Engelhardt è una società dove convivono sistemi sanitari differenti, coerenti con la religione di ciascuno e in competizione tra loro : ad esempio un sistema “Vaticare”, ispirato alla religione cattolica, dove al suo interno ci si rifiuterebbe di compiere aborti, suicidi assistiti, fecondazioni artificiali, trasferimento di embrioni, eutanasia; oppure un sistema “Buddacare” ispirato ai principi del buddismo; oppure un sistema “Islamacare”; e ancora un sistema per gli yuppies senza fede (“Agnosticare”), e anche un sistema “Ugualicare”, in cui gli individui potrebbero legalmente vincolare se stessi a ricevere assistenza entro un ristretto ventaglio di opzioni. Il modello farebbe coesistere pertanto concezioni spesso contrapposte sul vivere e sul morire.
In definitiva per Engelhardt non c’è una “morale” generale, ma tante morali quante possono essere le teste degli individui che compongono una società. Il pluralismo delle morali porta con sé, indissolubilmente e inevitabilmente, un pluralismo di valori ai quali, nell’impossibilità di effettuare gerarchie e priorità tra essi, andrebbe attribuito pari riconoscimento.   E, al di là dell’esercitazione logica in ottica “liberale” della costruzione di un modello fondato sul pluralismo dei valori, a ben vedere possiamo allargare oggi il ragionamento di Engelhardt a tanti campi del vivere sociale, e non solo confinarlo a quello dell’assistenza sanitaria.
Il pluralismo è ormai insito nelle nostre società del XXI secolo. Ne  sanno qualcosa gli inglesi, che proprio in questi giorni stanno ragionando sull’idea di abolire nelle scuole l’ora, peraltro facoltativa, di insegnamento della religione cristiana per sostituirla con un’ora obbligatoria di insegnamento delle “visioni del mondo” che contraddistinguono le tante comunità presenti nel Regno Unito, ormai abbondantemente pluralista.
Di fronte all’esaltazione teorica del pluralismo, che nell’ottica di un certo tipo di visione liberale della società trova certamente una sua giustificazione logica, e di fronte all’esaltazione del multiculturalismo della società britannica, che i promotori della proposta sopra ricordata definiscono “splendido” e che fornisce la linfa ideale alla proposta medesima, tornano però alla mente le considerazioni di un grande sociologo e filosofo tedesco , anche lui liberale, Ralf Dahrendorf, (tra l’altro, per lunghi anni Direttore della London School of Economics) il quale sottolineava che qualsiasi comunità organizzata ha bisogno di un sistema di riferimento – lui le chiamava “legature” – in grado di tenere insieme individui, gruppi, categorie sociali. Di fronte al trionfo del pluralismo delle morali e dei valori, cosa possono essere queste legature? Hanno ancora un senso?  E’ ancora possibile riunire intorno a un “comune sentire” le tante teste di individui che sembrano sempre meno inclini a relazionarsi con gli altri? E’ sufficiente un precetto giuridico per far funzionare bene le cose? Per caso, non stiamo forse assistendo ad un progressivo sgretolamento del “vivere in società”, che non è il vivere di feste mondane, ma è la capacità di ordinare gerarchicamente e riconoscere una sfera di diritti e una sfera di doveri, necessari per vivere, appunto, insieme e insieme deliberare sugli orientamenti che una comunità organizzata vuole darsi? In definitiva, non può darsi il caso che il pluralismo assunto a sistema di regolazione sociale possa pregiudicare la convivenza civile, dato che può impedire qualunque gerarchia di scelte? Quanto può valere o non valere il “principio di maggioranza” nella formazione di tante decisioni? E quanto possono o meno contribuire le grandi religioni alla riscoperta di queste legature? Sono tutti interrogativi che si prestano a risposte differenti, e tutte in qualche modo fondate. Ma sono interrogativi ineludibili, che attendono risposte meditate e il più possibile condivise. Risposte che implicano necessariamente una riflessione sul ruolo che ancora oggi  giocano le regole di convivenza e le gerarchie di valori che una comunità organizzata entro precisi ambiti territoriali si è data e si tramanda.  In sostanza, regole di convivenza e gerarchie di valori di quelle entità che i giuristi chiamano “entità statuali”, dotate di una precisa identità di fondo. E se esistono ancora queste entità e non si trascura il tema dell’identità di una comunità  statuale l’esigenza di costruire o preservare un sistema di “legature” si ripresenta implacabile.