Nel corso dell’interminabile opera di riordino dei tanti
volumi della nostra biblioteca, è riaffiorata la raccolta, edita dal Centro di
Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino, dei testi delle conferenze
organizzate in omaggio a Fulvio Guerrini, promotore del Centro stesso, che è
uno dei più interessanti e rilevanti “pensatoi” di analisi, prospettive e
valori autenticamente liberali in Italia.
Il volume contiene i testi delle Conferenze effettuate nel
periodo 1994-2005. Fa riflettere, per i ragionamenti svolti e la prospettiva di
analisi, la lettura della conferenza del 2000 tenuta da Tristram Engelhardt Jr.
sul tema “Al di là della giustizia e dell’equità: ripensare i sistemi
sanitari”. La tesi di Engelhardt è - citiamo
testualmente - che “la diffusa idea di una impostazione nazionale, moralmente
uniforme, della politica sanitaria non possa essere giustificata, in
considerazione 1) dei limiti della nostra razionalità morale discorsiva 2)
dalla pluralità delle nostre morali laiche, e 3) dalle conseguenti difficoltà
ad accettare il fatto che un’autorità mondana possa imporre un’unica moralità
valida per tutti. Nel momento in cui entriamo nel nuovo millennio siamo divisi
dalle nostre opinioni sulla giustizia, sull’equità e sull’uguaglianza,
esattamente come siamo divisi dalle nostre convinzioni religiose. Esistono
tante correnti di pensiero sulla giustizia, l’equità e l’uguaglianza quante
sono le maggiori religioni”. La conseguenza di questa constatazione è, per
Engelhardt, che “data la nostra incapacità di scegliere – su basi di principio
e con argomenti razionali evidenti – tra le diverse idee di giustizia, equità ed
uguaglianza, è necessario rinunciare all’ipotesi di imporre una comune visione
di un’assistenza sanitaria giusta, equa o correttamente uniforme”. Perciò, in
una società laica e pluralista, caratterizzata dall’autorità morale limitata di
una democrazia limitata, “ siamo costretti
ad accettare tacitamente l’esistenza di atteggiamenti pacifici e
moralmente diversi in merito all’allocazione delle risorse destinate
all’assistenza sanitaria”.
Date queste premesse, Engelhardt delinea un modello di
sanità logicamente coerente con gli assunti ricordati: un modello capace di
tenere in considerazione la nostra diversità morale e la limitata autorità
morale, dando perciò spazio ad una sorta di “competizione morale” all’interno
della società. Questo modello si
dovrebbe fondare su “vouchers sanitari” (buoni-salute) forniti ai cittadini, da
utilizzarsi da questi per acquistare assistenza sanitaria scegliendo tra una
moltitudine di istituzioni, egualmente tutte riconosciute dallo Stato,
istituzioni che diano la garanzia di forti convinzioni morali in merito
all’espansione delle potenzialità umane e a proposito della corretta risposta
da darsi di fronte alla finitezza umana. I cittadini possono perciò impiegare i
vouchers per ottenere accesso al tipo di assistenza sanitaria più coerente con
i loro valori e le loro aspettative morali. La società immaginata e delineata
da Engelhardt è una società dove convivono sistemi sanitari differenti,
coerenti con la religione di ciascuno e in competizione tra loro : ad esempio
un sistema “Vaticare”, ispirato alla religione cattolica, dove al suo interno
ci si rifiuterebbe di compiere aborti, suicidi assistiti, fecondazioni
artificiali, trasferimento di embrioni, eutanasia; oppure un sistema
“Buddacare” ispirato ai principi del buddismo; oppure un sistema “Islamacare”;
e ancora un sistema per gli yuppies senza fede (“Agnosticare”), e anche un
sistema “Ugualicare”, in cui gli individui potrebbero legalmente vincolare se
stessi a ricevere assistenza entro un ristretto ventaglio di opzioni. Il modello
farebbe coesistere pertanto concezioni spesso contrapposte sul vivere e sul
morire.
In definitiva per Engelhardt non c’è una “morale” generale,
ma tante morali quante possono essere le teste degli individui che compongono
una società. Il pluralismo delle morali porta con sé, indissolubilmente e
inevitabilmente, un pluralismo di valori ai quali, nell’impossibilità di
effettuare gerarchie e priorità tra essi, andrebbe attribuito pari
riconoscimento. E, al di là
dell’esercitazione logica in ottica “liberale” della costruzione di un modello
fondato sul pluralismo dei valori, a ben vedere possiamo allargare oggi il
ragionamento di Engelhardt a tanti campi del vivere sociale, e non solo
confinarlo a quello dell’assistenza sanitaria.
Il pluralismo è ormai insito nelle nostre società del XXI
secolo. Ne sanno qualcosa gli inglesi,
che proprio in questi giorni stanno ragionando sull’idea di abolire nelle
scuole l’ora, peraltro facoltativa, di insegnamento della religione cristiana
per sostituirla con un’ora obbligatoria di insegnamento delle “visioni del
mondo” che contraddistinguono le tante comunità presenti nel Regno Unito, ormai
abbondantemente pluralista.
Di fronte all’esaltazione teorica del pluralismo, che nell’ottica
di un certo tipo di visione liberale della società trova certamente una sua
giustificazione logica, e di fronte all’esaltazione del multiculturalismo della
società britannica, che i promotori della proposta sopra ricordata definiscono
“splendido” e che fornisce la linfa ideale alla proposta medesima, tornano però
alla mente le considerazioni di un grande sociologo e filosofo tedesco , anche
lui liberale, Ralf Dahrendorf, (tra l’altro, per lunghi anni Direttore della
London School of Economics) il quale sottolineava che qualsiasi comunità organizzata
ha bisogno di un sistema di riferimento – lui le chiamava “legature” – in grado
di tenere insieme individui, gruppi, categorie sociali. Di fronte al trionfo
del pluralismo delle morali e dei valori, cosa possono essere queste legature?
Hanno ancora un senso? E’ ancora
possibile riunire intorno a un “comune sentire” le tante teste di individui che
sembrano sempre meno inclini a relazionarsi con gli altri? E’ sufficiente un
precetto giuridico per far funzionare bene le cose? Per caso, non stiamo forse
assistendo ad un progressivo sgretolamento del “vivere in società”, che non è
il vivere di feste mondane, ma è la capacità di ordinare gerarchicamente e
riconoscere una sfera di diritti e una sfera di doveri, necessari per vivere,
appunto, insieme e insieme deliberare sugli orientamenti che una comunità
organizzata vuole darsi? In definitiva, non può darsi il caso che il pluralismo
assunto a sistema di regolazione sociale possa pregiudicare la convivenza
civile, dato che può impedire qualunque gerarchia di scelte? Quanto può valere
o non valere il “principio di maggioranza” nella formazione di tante decisioni?
E quanto possono o meno contribuire le grandi religioni alla riscoperta di
queste legature? Sono tutti interrogativi che si prestano a risposte
differenti, e tutte in qualche modo fondate. Ma sono interrogativi ineludibili,
che attendono risposte meditate e il più possibile condivise. Risposte che implicano
necessariamente una riflessione sul ruolo che ancora oggi giocano le regole di convivenza e le
gerarchie di valori che una comunità organizzata entro precisi ambiti
territoriali si è data e si tramanda. In
sostanza, regole di convivenza e gerarchie di valori di quelle entità che i
giuristi chiamano “entità statuali”, dotate di una precisa identità di fondo. E
se esistono ancora queste entità e non si trascura il tema dell’identità di una
comunità statuale l’esigenza di
costruire o preservare un sistema di “legature” si ripresenta implacabile.