lunedì 8 ottobre 2018

La corsa ad handicap della politica dei governi nazionali nell'Europa della finanza

La presentazione della proposta di Def da parte del Governo italiano offre l’occasione per compiere alcune riflessioni sullo strano rapporto che si è creato in Europa tra la politica economica che un Governo nazionale desidera attuare e la logica sistemica che si è consolidata a livello di Unione Europea. Qui non interessa tanto discutere sui singoli aspetti di una manovra di cui si conoscono ancora pochi elementi, se non il fatto che è previsto un deragliamento dal sentiero di rientro del deficit pubblico con la previsione di uno sforamento temporaneo al 2,4%, per effetto di alcune misure di carattere  sicuramente assistenziale (reddito di cittadinanza) presentate come elemento di contrasto all’impoverimento progressivo di parte della popolazione, altre di carattere redistributivo e equitativo (riforma delle pensioni), e altre con finalità di stimolo allo sviluppo (investimenti pubblici). “Equità e sviluppo” potrebbe essere lo slogan che caratterizza questa manovra che, nella sostanza, appare abbastanza keynesiana, nel senso che – coerentemente con l’impostazione di Keynes – affiderebbe al maggior reddito dei cittadini una funzione di stimolo ai consumi e agli investimenti una funzione di moltiplicatore positivo sull’occupazione e sulle imprese. Keynes è un economista importante, le cui teorie contribuirono a far uscire il mondo sviluppato dalla Grande Depressione degli anni ’30 del Novecento e che negli anni ’70 di quel secolo conobbero in Italia un grande revival, fornendo giustificazione teorica ai Governi di Centro Sinistra di allora (in particolare alla componente socialista) nel favorire l’espansione della spesa pubblica in ottica di riequilibrio sociale e di sviluppo. Il problema – che gli economisti non hanno mancato di sottolineare – che le politiche keynesiane richiedono risorse che un Paese fortemente indebitato fa fatica a reperire.
Di fronte a una impostazione del genere la Commissione Europea ha espresso un forte dissenso e certamente per l’Italia si apre un periodo di forti turbolenze finanziarie che potrebbero avere forti ripercussioni (negative) su privati, banche e assicurazioni.  Per la Commissione Europea e per i mercati finanziari conta soprattutto il livello di indebitamento pubblico e, per quanto nominalmente il deficit rimanga sotto la fatidica soglia del 3%, fissata dai trattati istitutivi della moneta unica, l’annunciato sforamento al 2,4%, in controtendenza rispetto al trend degli ultimi anni, rappresenta un segnale molto negativo. Ma qui non si vuole commentare una manovra dai contorni non ancora chiari. Prendiamo da qui invece l’occasione per  riflettere sul modo in cui si è costruita in questi anni l’Unione Europea e sulla strana situazione di schizofrenia decisionale che si è creata tra Stati nazionali e UE, schizofrenia che sicuramente potrebbe sfociare in tensioni e contrasti molto superiori a quelli, pur aspri nei toni, che oggi contraddistingue il “dialogo” tra Governo italiano e UE. Per cercare di orientarci nel capire, è opportuna qualche considerazione.
Prima di tutto va detto che l’Unione  Europea ha cambiato pelle negli anni: da un progetto politico voluto da illuminati padri fondatori per superare le conflittualità storiche tra Stati che avevano portato a due guerre mondiali nell’arco di meno di cinquant’anni, un progetto politico che è avanzato fino alla seconda metà del Novecento “governato” dalla politica, siamo passati in modo sempre più evidente alla realizzazione di un progetto di integrazione essenzialmente finanziaria che ha trovato nella costruzione dell’euro, cioè di una moneta unica europea, la sua consacrazione. Costruendo l’euro e di conseguenza costruendo un assetto di governo della moneta unica fondato esclusivamente su parametri monetari e finanziari, su rapporti definiti a tavolino tra i debiti pubblici dei vari Paesi aderenti, definendo soglie invalicabili di debito pubblico, attribuendo potere di governo dell’euro e delle istituzioni finanziarie degli Stati membri alla Banca Centrale Europea a scapito delle Banche Centrali dei singoli Stati,  si è edificato un sistema in sé coerente ma rigido, dove vi è spazio solo per la politica monetaria. In una logica monetaria non poteva essere, probabilmente, altrimenti, ma un processo di integrazione monetaria e finanziaria non accompagnato da un parallelo processo di integrazione politica attribuisce al mondo finanziario un potere pressochè esclusivo di indirizzo e di controllo dei fenomeni macroeconomici. Oggi in Europa l’unico modo di fare politica economica è fare “politica monetaria”, quando invece la teoria economica insegna che la politica monetaria è e deve essere parte di una più generale “politica economica” che utilizza leve e variabili di vario genere. E’ questo il motivo di fondo per cui dal dibattito economico europeo risultano desolatamente assenti i grandi obiettivi di politica economica su cui da sempre si è misurata la teoria economica: l’occupazione, l’impresa, la qualità dello sviluppo sono alcuni di questi. Conta la stabilità monetaria, con tutto ciò che essa richiede. Discorso in sé giusto, ma pericolosamente monco. Resta perciò il fatto, incontestabile, che questa costruzione pensata a tavolino da un ristretto numero di “esperti”, in genere esponenti della finanza e delle Banche Centrali, ha portato a una divaricazione, oggi evidente , tra le esigenze della politica, che rimane ancorata a visioni nazionali, e la finanza, che si muove su uno scenario globale e che trova nelle istituzioni preposte al governo della moneta unica un formidabile alleato nelle sue azioni. Il mancato processo di integrazione politica a livello europeo – per la verità più facile a dirsi che a farsi, dato che la storia dell’Europa è una storia di rapporti (e di scontri) tra Stati nazionali – ha portato a una situazione in cui sembra inevitabile che possano crearsi tensioni e frizioni, anche gravi. Infatti uno Stato nazionale che in determinate contingenze volesse adottare azioni di politica economica che alterassero, anche solo temporaneamente, il rigido quadro dei parametri di riferimento fissati a livello europeo si troverebbe subito esposto a tensioni finanziarie e a speculazioni di ogni genere. Di fatto il sistema europeo ha azzoppato la politica, che rimane incardinata negli Stati nazionali, nel suo sforzo di superare situazioni specifiche con i classici strumenti non monetari di politica economica. La politica degli Stati nazionali è costretta a giocare una partita a handicap, che non entusiasma nessuno e apre la strada a rancori e malumori crescenti. E ciò che forse colpisce di più è il fatto che la grande maggioranza degli esponenti politici a livello europeo dimostri continuamente di non interrogarsi sul “che fare” per individuare e introdurre strumenti e regole capaci di rendere compatibile la politica monetaria con le altre leve di politica economica. Qui il discorso diventa inevitabilmente molto concreto, nel senso che non si può non pensare al peso degli interessi dei singoli Stati per modificare o meno determinate regole. In politica e in economia vince in genere il più forte, ed è lecito pensare che gli Stati forti dell’Europa non abbiano interesse a cambiare.  Questo però non sembra essere il modo migliore per costruire una vera integrazione tra Stati.
Allargando un po’ l’orizzonte delle nostre considerazioni, va detto in secondo luogo che il quadro macroeconomico generale, non solo per l’Italia ma per il mondo, si è modificato radicalmente nel corso di quest’ultimo ventennio per effetto di una serie di decisioni e di azioni che hanno contribuito, tutte, a rendere le relazioni economiche internazionali più complesse e sovente meno comprensibili e gestibili: da una apertura dei mercati a livello globale decisa forse con troppa precipitazione su spinta degli USA; all’abolizione di preziose regole (ancora una volta, a partire dagli USA) che dividevano i campi di azione della finanza speculativa dagli altri impieghi finanziari; alla sofisticazione di strumenti che avranno certo reso ai loro ideatori qualche premio Nobel per l’economia (si pensi ai famosi “derivati”) ma che hanno contribuito a rendere la finanza meno trasparente e decifrabile. Si aggiunga poi un processo di allargamento dell’Unione Europea, fortemente voluto a suo tempo per ragioni essenzialmente geopolitiche, processo che avrebbe potuto essere molto positivo se avesse rispettato, e rispettasse, le peculiarità anche culturali delle comunità che i confini statuali esprimono. Invece la politica delle istituzioni europee ha risposto a questo processo con una corsa – in sé potenzialmente divisiva e pericolosa – verso una omologazione di regole e costumi, applicando una discutibile logica di “volontà della maggioranza” a livello europeo, sovente importando concetti estranei alla cultura europea. Eppure dovrebbe essere evidente a tutti, e a maggior ragione a chi è investito di responsabilità politiche a livello europeo, che l’Unione è un agglomerato di comunità contraddistinte da diversità religiose (cattolici e protestanti), economiche (mercati organizzati in modo differente e più o meno liberalizzati), etiche, giuridiche (Paesi di Common law e Paesi di Civil Law), culturali. A tale ultimo riguardo un segno evidente di questà volontà “impositiva” importata da oltre oceano sembra essere la quasi forsennata esaltazione dei cosiddetti “diritti civili” – frutto di una visione liberal della società che non tutti condividono e a cui non sono estranei precisi interessi economici – che, a prescindere dal come ciascuno la pensi, meriterebbero discussioni lunghe, meditate e approfondite, ben lontane da quanto a volte ci tocca sentire, che non va al di là dell’insulto e del discredito aprioristico di chi la pensa in modo diverso.
Aggiungiamo ancora a questo quadro che l’Italia è entrata nell’euro senza essere del tutto consapevole di  cosa questo ingresso avrebbe di fatto comportato. L’ingresso nelle regole dell’euro contrastava radicalmente con un principio a cui invece praticamente tutti i Governi si sono attenuti, almeno dagli anni ’70 del Novecento in poi: il principio del consenso alimentato dalla spesa pubblica. Principio criticabilissimo, ma al quale non sono estranee oggi le sollecitazioni ad una maggiore uguaglianza che provengono alle politiche nazionali dalle istanze, i rancori e le aspettative delle tante vittime che il processo della globalizzazione economica ha lasciato dietro di sé.
Se questo è il quadro di riferimento, ed è solo un abbozzo, non c’è da stupirsi se i politici dei vari schieramenti “tradizionali” risultino in qualche modo tutti screditati e se sorgono nuove aggregazioni politiche che , sia pure in modo confuso, rozzo e spesso approssimativo, si fanno portavoce dei malumori e delle delusioni della gente comune, contrapponendo la “volontà del popolo” a quella di elites  che sono percepite lontane dai reali problemi. E non c’è da stupirsi – lo dimostra il tono del confronto tra Italia e UE – se queste nuove aggregazioni politiche, anziché scegliere la strada del confronto preventivo con le istituzioni europee per “strappare” il massimo delle concessioni possibile all’interno delle regole date, scelgono la strada della contrapposizione con l’obbiettivo esplicito di modificare profondamente queste regole, per recuperare un’autonomia di decisione che , sia pure in modo disordinato, rappresenta il tentativo di ripristinare sui processi economici il primato della politica e di farle correre una gara senza handicap per recuperare slancio in ottica di sviluppo nell’interesse delle comunità nazionali. Come il quadro si evolverà, è veramente arduo ipotizzarlo. All’orizzonte, per il momento si vedono solo segnali di intensi uragani.

lunedì 17 settembre 2018

Pluralismo di valori e pluralismo di morali. Quali "legature" per la tenuta della società?


Nel corso dell’interminabile opera di riordino dei tanti volumi della nostra biblioteca, è riaffiorata la raccolta, edita dal Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino, dei testi delle conferenze organizzate in omaggio a Fulvio Guerrini, promotore del Centro stesso, che è uno dei più interessanti e rilevanti “pensatoi” di analisi, prospettive e valori autenticamente liberali in Italia.
Il volume contiene i testi delle Conferenze effettuate nel periodo 1994-2005. Fa riflettere, per i ragionamenti svolti e la prospettiva di analisi, la lettura della conferenza del 2000 tenuta da Tristram Engelhardt Jr. sul tema “Al di là della giustizia e dell’equità: ripensare i sistemi sanitari”.  La tesi di Engelhardt  è  - citiamo testualmente - che “la diffusa idea di una impostazione nazionale, moralmente uniforme, della politica sanitaria non possa essere giustificata, in considerazione 1) dei limiti della nostra razionalità morale discorsiva 2) dalla pluralità delle nostre morali laiche, e 3) dalle conseguenti difficoltà ad accettare il fatto che un’autorità mondana possa imporre un’unica moralità valida per tutti. Nel momento in cui entriamo nel nuovo millennio siamo divisi dalle nostre opinioni sulla giustizia, sull’equità e sull’uguaglianza, esattamente come siamo divisi dalle nostre convinzioni religiose. Esistono tante correnti di pensiero sulla giustizia, l’equità e l’uguaglianza quante sono le maggiori religioni”. La conseguenza di questa constatazione è, per Engelhardt, che “data la nostra incapacità di scegliere – su basi di principio e con argomenti razionali evidenti – tra le diverse idee di giustizia, equità ed uguaglianza, è necessario rinunciare all’ipotesi di imporre una comune visione di un’assistenza sanitaria giusta, equa o correttamente uniforme”. Perciò, in una società laica e pluralista, caratterizzata dall’autorità morale limitata di una democrazia limitata, “ siamo costretti  ad accettare tacitamente l’esistenza di atteggiamenti pacifici e moralmente diversi in merito all’allocazione delle risorse destinate all’assistenza sanitaria”.
Date queste premesse, Engelhardt delinea un modello di sanità logicamente coerente con gli assunti ricordati: un modello capace di tenere in considerazione la nostra diversità morale e la limitata autorità morale, dando perciò spazio ad una sorta di “competizione morale” all’interno della società.  Questo modello si dovrebbe fondare su “vouchers sanitari” (buoni-salute) forniti ai cittadini, da utilizzarsi da questi per acquistare assistenza sanitaria scegliendo tra una moltitudine di istituzioni, egualmente tutte riconosciute dallo Stato, istituzioni che diano la garanzia di forti convinzioni morali in merito all’espansione delle potenzialità umane e a proposito della corretta risposta da darsi di fronte alla finitezza umana. I cittadini possono perciò impiegare i vouchers per ottenere accesso al tipo di assistenza sanitaria più coerente con i loro valori e le loro aspettative morali. La società immaginata e delineata da Engelhardt è una società dove convivono sistemi sanitari differenti, coerenti con la religione di ciascuno e in competizione tra loro : ad esempio un sistema “Vaticare”, ispirato alla religione cattolica, dove al suo interno ci si rifiuterebbe di compiere aborti, suicidi assistiti, fecondazioni artificiali, trasferimento di embrioni, eutanasia; oppure un sistema “Buddacare” ispirato ai principi del buddismo; oppure un sistema “Islamacare”; e ancora un sistema per gli yuppies senza fede (“Agnosticare”), e anche un sistema “Ugualicare”, in cui gli individui potrebbero legalmente vincolare se stessi a ricevere assistenza entro un ristretto ventaglio di opzioni. Il modello farebbe coesistere pertanto concezioni spesso contrapposte sul vivere e sul morire.
In definitiva per Engelhardt non c’è una “morale” generale, ma tante morali quante possono essere le teste degli individui che compongono una società. Il pluralismo delle morali porta con sé, indissolubilmente e inevitabilmente, un pluralismo di valori ai quali, nell’impossibilità di effettuare gerarchie e priorità tra essi, andrebbe attribuito pari riconoscimento.   E, al di là dell’esercitazione logica in ottica “liberale” della costruzione di un modello fondato sul pluralismo dei valori, a ben vedere possiamo allargare oggi il ragionamento di Engelhardt a tanti campi del vivere sociale, e non solo confinarlo a quello dell’assistenza sanitaria.
Il pluralismo è ormai insito nelle nostre società del XXI secolo. Ne  sanno qualcosa gli inglesi, che proprio in questi giorni stanno ragionando sull’idea di abolire nelle scuole l’ora, peraltro facoltativa, di insegnamento della religione cristiana per sostituirla con un’ora obbligatoria di insegnamento delle “visioni del mondo” che contraddistinguono le tante comunità presenti nel Regno Unito, ormai abbondantemente pluralista.
Di fronte all’esaltazione teorica del pluralismo, che nell’ottica di un certo tipo di visione liberale della società trova certamente una sua giustificazione logica, e di fronte all’esaltazione del multiculturalismo della società britannica, che i promotori della proposta sopra ricordata definiscono “splendido” e che fornisce la linfa ideale alla proposta medesima, tornano però alla mente le considerazioni di un grande sociologo e filosofo tedesco , anche lui liberale, Ralf Dahrendorf, (tra l’altro, per lunghi anni Direttore della London School of Economics) il quale sottolineava che qualsiasi comunità organizzata ha bisogno di un sistema di riferimento – lui le chiamava “legature” – in grado di tenere insieme individui, gruppi, categorie sociali. Di fronte al trionfo del pluralismo delle morali e dei valori, cosa possono essere queste legature? Hanno ancora un senso?  E’ ancora possibile riunire intorno a un “comune sentire” le tante teste di individui che sembrano sempre meno inclini a relazionarsi con gli altri? E’ sufficiente un precetto giuridico per far funzionare bene le cose? Per caso, non stiamo forse assistendo ad un progressivo sgretolamento del “vivere in società”, che non è il vivere di feste mondane, ma è la capacità di ordinare gerarchicamente e riconoscere una sfera di diritti e una sfera di doveri, necessari per vivere, appunto, insieme e insieme deliberare sugli orientamenti che una comunità organizzata vuole darsi? In definitiva, non può darsi il caso che il pluralismo assunto a sistema di regolazione sociale possa pregiudicare la convivenza civile, dato che può impedire qualunque gerarchia di scelte? Quanto può valere o non valere il “principio di maggioranza” nella formazione di tante decisioni? E quanto possono o meno contribuire le grandi religioni alla riscoperta di queste legature? Sono tutti interrogativi che si prestano a risposte differenti, e tutte in qualche modo fondate. Ma sono interrogativi ineludibili, che attendono risposte meditate e il più possibile condivise. Risposte che implicano necessariamente una riflessione sul ruolo che ancora oggi  giocano le regole di convivenza e le gerarchie di valori che una comunità organizzata entro precisi ambiti territoriali si è data e si tramanda.  In sostanza, regole di convivenza e gerarchie di valori di quelle entità che i giuristi chiamano “entità statuali”, dotate di una precisa identità di fondo. E se esistono ancora queste entità e non si trascura il tema dell’identità di una comunità  statuale l’esigenza di costruire o preservare un sistema di “legature” si ripresenta implacabile.